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EXTRANTEPRIMA! Dal nostro inviato al festival Schermi d'amore (Verona)
Dopo aver scontato quindici anni di carcere per l’omicidio del giovane figlio, Juliette torna in libertà. Mai perdonata dalla famiglia, è stata condannata a una vera e propria damnatio memoriae che l’ha drasticamente isolata dalle persone a lei più care. Il padre morto nel dolore, la madre rifugiatasi nella demenza senile, la sorella che fatica a mettere a fuoco una metà che non ha mai avuto. E proprio dalla sorella si stabilisce provvisoriamente Juliette, mentre si dibatte fra una società emarginante e le troppe domande sulla sua assenza. Poco per volta gli affetti si ricompongono, e si intravede più luce sia sul passato che sul futuro.
Lo scrittore e sceneggiatore lorenese Philippe Claudel esordisce quarantacinquenne dietro la macchina da presa, con questo Il y a longtemps que je t’aime, presentato alla 58ma Berlinale e da noi in anteprima nazionale come apertura del festival veronese Schermi d’Amore 2008.
La forte tematica dell’infanticidio – solo un punto di partenza per qualcosa di più grande – viene esposta in modo discreto ed equilibrato dal pacato autore, che si serve di riprese in digitale utili a rendere più vividi i momenti delicati – ma diciamolo, anche malinconici e deprimenti – a cui assistiamo. La storia si dipana attorno a un evento passato (e sconosciuto per i primi minuti) che si riflette sul presente e sulle relazioni che la protagonista cerca di recuperare intorno a sé. Ma se da una parte la tematica è di quelle che particolarmente si presta al dramma d’autore, dall’altra è il modo in cui viene esposta a lasciare perplessi. D’accordo soffermarsi sugli sguardi, sui primi piani, sulle parole e sui silenzi, ma il motore della vicenda si inceppa presto e la pellicola dimostra di avere il fiato corto già dopo la prima quarantina di minuti. Peraltro rendendo anche abbastanza scontato un finale che pure viene tirato troppo per le lunghe. Alcune scene paiono troppo forzate e pedanti (le continue domande della nipotina vietnamita, le situazioni ambigue che richiamano la prigionia, la cena col solito ospite curiosone di turno), e sono le scansioni narrative a latitare. Il regista lavora di fino, ma sono gli eventi a mancare ed è il Claudel sceneggiatore ad avere la responsabilità maggiore. Per un’opera la cui durata non indifferente si aggira sui 110 minuti e varie sforbiciate avrebbero di certo giovato.
Il cast attoriale risulta pienamente convincente sin dai personaggi secondari, passando per Elsa Zylberstein – la sorella – fino ad arrivare all’ottima Kristin Scott Thomas (Il paziente inglese), maestra d’espressività che regge sulle sue spalle (e sui suoi occhi) la maggior parte delle inquadrature del film. Mentre la colonna sonora che vorrebbe sottolineare gli attimi di intensità, spesso risulta posticcia e inadeguata, accentuando la sensazione di trovarsi di fronte a un’opera d’esordio riuscita a metà, che poteva essere ma non è.
Insomma, buono lo spunto, ma poteva e doveva essere sviluppato prestando maggior attenzione alla resistenza del pubblico in sala. Che, se non armato di caffè, rischia di volare verso altri lidi ben più accomodanti.
Articolo del
13/04/2008 -
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