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1957. A vent’anni di distanza da dove lo avevamo lasciato Indiana Jones (Harrison Ford) è alle prese con dei comunisti senza scrupoli che, venuti a conoscenza degli immensi poteri di certi teschi di cristallo, sono decisi a trovare il modo di sfruttarli a dovere per conquistare il mondo. Ovviamente l’aiuto coatto del dottor Jones come sempre è necessario. Ecco servita quindi su un piatto d’argento la quarta avventura del professore part-time più famoso del mondo.
Solo qualche indicazione di trama, semplicemente perché in questo Indiana Jones c’è veramente di tutto, e anche di più. Stare a parlare di ogni scena, sviluppo e dettaglio diventerebbe un’impresa… da Indiana Jones. Due ore e dieci circa di avventura per definizione, senza lesinare sugli eccessi: chi più ne ha, più ne metta. Bombe atomiche, inseguimenti nella giungla, formiche assassine, lingue morte e civiltà scomparse, viaggi in aereo con la cartina e la linea rossa tratteggiata di sfondo, scazzottate a volontà e una bella e sana dose di ironia. Steven Spielberg dirige un film ingirabile, talmente atteso da scontentare chiunque eppure tanto amato da permettersi qualsiasi cosa. Indiana Jones e il Regno del Tempio di Cristallo vive di questa contraddizione. Lucas e Spielberg hanno confezionato qualcosa che va oltre il semplice film. Tutti ne parlano e tutti hanno una teoria, c’è chi si spreca in critiche fanfarone, senza ricordarsi che lo stesso era successo all’uscita del Tempio maledetto e dei dell’Ultima crociata. C’è chi dice che la svolta fantascientifica è esagerata senza magari ricordarsi che il buon vecchio Indy ha avuto a che fare addirittura con Dio in uno dei capitoli precedenti. Insomma: il quarto Indiana Jones è in tutto e per tutto Indiana Jones , che piaccia oppure no, nei suoi pregi e nei suoi difetti. E nei difetti metto quei due o tre momenti di calma e di respiro, dove il dialogo magari regge poco e gli escamotage pensati per cacciarci dentro i riferimenti alla saga a volte sono un pochino forzati (vedi il serpente e le sabbie mobili…). A dire la verità non mi ha troppo convinto nemmeno John Hurt, un po’ troppo macchietta e Karen Allen, talmente stirata in faccia da sembrare un pupazzo e un attimo fuori allenamento. Spielberg però, fuori dai denti, ha praticamente inventato il cinema d’avventura come lo conosciamo oggi. Vederlo tornare al suo primo amore riempie il cuore di felicità, per come sa gestire le sequenze più incredibili con una naturalezza disarmante, per come rende tutto ironicamente accattivante: i primi 25 minuti di pellicola sono veramente una bomba. Il ritmo poi cala e la storia prosegue. L’arrivo di Mutt (Shia LeBeuf) è una bella novità, ma l’affetto del pubblico se lo deve conquistare sul campo e diciamoci la verità, bravo quanto vuoi, ma il confronto con Indiana (Harrison Ford in formissima) è troppo per chiunque. Cate Blanchett è una cattivona degna di nota. L’agente Spalko ha tutte le carte in regola: bella, letale e ambiziosamente folle (proprio come i nazisti dell’ultima crociata…). L’idea dei comunisti nemici funziona bene soprattutto nei riferimenti iniziali al maccartismo (“better dead than red”): persino un pluridecorato simbolo dell’america stessa come Indiana Jones può essere messo in discussione. L’ambiente fine anni ‘50 necessita di un momento di assimilazione, nonostante venga reso visivamente molto bene. Ci ricordavamo di Indiana su di uno zeppelin con il padre e adesso lo vediamo sfrecciare tra i banchi della biblioteca del college su una Harley guidata da un ragazzo con il chiodo. I momenti migliori però non possono non essere tutti i rimandi a quello che ha reso Indiana Jones una delle saghe più amate del cinema: i riferimento ai personaggi scomparsi (Sean Connery… Marcus …), l’amore infinito per il cappello, la dissolvenza sul logo Paramount all’inizio. Il film è costellato di ammiccamenti. Arrivare fino in fondo richiede però un discreto sforzo, tanto si è frastornati dalla mole visiva e narrativa. Un finale mastodontico che andrà certo rivisto dopo una lenta digestione. Bisogna farci l’occhio.
In conclusione mi sembra di poter dire che il film che abbiamo per le mani possa essere garantito al cento per cento come puro Indiana Jones, che Spielberg è il maestro dell’avventura incontestabile (mi fa ridere pensare ai vari tentativi di clone comeTurtletaub e soci…) e che spero che a George Lucas non venga in mente di farne un altro. Dico anche che è un piacere vedere bambini di sette, otto anni inneggiare al capelluto eroe tanto quanto barbuti quarantenni e famiglie al completo: potere di Spielberg e di un cinema totale che solo lui sa regalare. Direi che sentire il tema musicale di John Williams basta e avanza a giustificare il prezzo del biglietto. Promosso? Direi di si. Promosso da tutti? Direi di no, ma aspetterei qualche annetto però: va digerito per bene… si sa mai che finisca come per gli altri due.
Articolo del
03/06/2008 -
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