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Dawn è una diciottenne fierissima sostenitrice dell’astinenza sessuale. A contatto con le prime esperienze, scoprirà sulla propria pelle quanto il mito della “vagina dentata” sia per lei di drammatica attualità.
Arriva finalmente nelle nostre sale, con qualche mese di ritardo, il primo lungometraggio di Mitchell Lichtenstein (figlio del ben più noto Roy), vero e proprio caso al Sundance Festival dello scorso anno. Dato il soggetto, non poteva forse essere altrimenti, anche se questo Teeth (in originale) si rivela tutto sommato una piacevole sorpresa nell’ennesima, desolata estate cinematografica.
Denti riesce a impossessarsi intelligentemente di alcuni stilemi presi in prestito dalla commedia (rigorosamente nera e indipendente) e dall’horror calandoli in un contesto, macabramente grottesco, piuttosto sorprendente. Doppi sensi e allusioni di genere tutt’altro che vario, accompagnate da compiaciuti primi piani di qualche evirazione, arricchiscono un meccanismo che fin dall’inizio si distingue per la propria lentezza. Il ritmo viene infatti dilatato da una regia che spesso indugia sull’apprezzabile protagonista, cogliendo alcune sottili sfumature della prova più che buona di Jess Weixler. Il tutto viene accompagnato da una fotografia (vedere su tutte la scena iniziale) che ci riporta in parte ai gloriosi anni ‘80, con qualche saltuario passo ulteriormente indietro. Purtroppo l’unico vero difetto, ma non certo di poco conto, si presenta sotto forma di una sceneggiatura inesorabilmente prevedibile, che ben presto conduce lo spettatore di fronte ad una certa ripetitività delle situazioni (incluso un finale più che scontato).
Tutte queste ragioni suggeriscono che una prima visione di Denti potrebbe disorientare, e non poco, chi si aspettava un teen movie reso più appetibile dall’apparente veste gore. Il film nasconde tutto sommato una piacevole storia di emancipazione femminile, un percorso che attraverso la presa di coscienza della propria sessualità trasforma la protagonista in una avvenente eroina (letteralmente) castratrice, da pudica e sciatta studentessa quale era. Proprio la raffigurazione dell’atto sessuale è un elemento di forza della pellicola, laddove esso pare rappresentare un mero rituale d’accoppiamento, celebrato da corpi tutt’altro che patinati o appetibili, impregnato di una carnalità scarsamente erotica. Il ritmo incespicante si rivela in quest’ottica una scelta quanto mai azzeccata, ideale per raccontare le gesta di un gruppo di giovani che sembrano agire meccanicamente per una sorta di primitiva e annoiata inerzia.
In definitiva, pur non rivelandosi un piccolo capolavoro, può comunque rappresentare una valida alternativa ai vari Black house e Ombre dal passato. Chiariamoci: senza che sbaragli chissà quale concorrenza.
Articolo del
27/08/2008 -
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