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Prima di parlare de Il papà di Giovanna è doverosa una premessa: per fare i film “in costume” c’è bisogno di una produzione ricca, generosa o quantomeno lungimirante, in una parola serve una major. Non basta lo storico che affianca lo sceneggiatore, l’architetto specializzato in quel periodo per la scenografia, l’esperta in storia del costume. Convinceva di più Russel Crowe nell’arena del Colosseo rispetto ad Ezio Greggio che correva in una via piena di macerie (una città bombardata?). Uno scantinato tremolante vuole emulare una rifugio antiaereo. Una manciata di ragazzi vestiti da giovani Balilla rappresenta un corteo a lutto che incita con orgoglio alla vendetta. Vediamo una decina di comparse che vorrebbero essere una folla delirante. Si insiste col dare alla fotografia un colore opaco, come un’immagine scolorita e ingiallita dal tempo.
Il cinema nostrano, quando vuole uscire dalle storie intimiste e attuali, risulta spesso misero e poco credibile. Non è più possibile ingannare lo spettatore anche meno consapevole troppo abituato ai potenti effetti speciali, alle convincenti ricostruzioni, alla magnifica computer grafica di cui il cinema targato Usa ci inonda! Manzoni diceva che “Non sempre ciò che viene dopo è progresso”. In questo caso sì.
Il papà di Giovanna vuole essere uno spaccato di vita di una piccola famiglia nella Bologna del Ventennio. La storia narra le vicissitudini di Giovanna (Alba Caterina Rohrwacher), studentessa diciassettenne tanto buona e ingenua da essere stupida. Narra di Michele Casali (Silvio Orlando), un padre tanto protettivo da tentare con un piccolo e apparentemente innocuo stratagemma di farla integrare nella scuola dove lui stesso insegna. Narra di una bella moglie e madre (Francesca Neri), che non è suo malgrado una buona moglie e madre. La maldestra speranza di far interessare un ragazzo a Giovanna è il seme della tragedia: Giovanna uccide per gelosia e invidia la sua migliore amica, una ragazza di famiglia nobile strettamente legata al Duce e viene quindi internata. Michele, per starle vicino, lascia che Delia fugga a Salò con Sergio Ghia (Ezio Greggio), il vicino di casa della famiglia Casati, poliziotto fascista, da sempre attratto da Francesca Neri (ricambiato), ma legato da tenera amicizia a Silvio Orlando.
Come se tutto ciò non bastasse, come se questo materiale non fosse sufficiente, Pupi Avati ha abbozzato un’analisi storica, politica e sociale del periodo. Il film si svolge in un lasso di tempo che va dal ‘38 al ’46, anni cruciali per l’Italia, a maggior ragione in una Bologna fortemente antifascista. Il regista, indeciso se lasciarla come sfondo scenografico o optare per un coinvolgimento diretto, rimane tuttavia nel mezzo.
Per non parlare della sceneggiatura, che manca di fluidità e di analisi: il dispiegarsi degli avvenimenti è meccanico. Personaggi che appaiono per compiere dei gesti immotivati e poi sparire nel nulla (ciclicamente Michele e Giovanna vanno in pellegrinaggio dalla madre della ragazza massacrata per essere da lei malamente cacciati). Altri che offrono pretesti narrativi inutili, come Serena Grandi che interpreta la moglie paralitica di Sergio, ha una manciata di battute, muore sotto i bombardamenti per essere prontamente sostituita da Francesca Neri. E ancora spunti solo apparentemente interessanti lasciati morire senza colpo ferire: il rapporto e le incomprensioni tra madre e figlia, il percorso che Giovanna compie per migliorare e per giungere alla consapevolezza del suo gesto, lo stesso rapporto tra Michele e Delia. Le vicissitudini psichiatriche hanno delle origini profonde e quasi edipiche, ma vengono osservate con superficialità, in un ampio giro di ricognizione.
Gli attori nel complesso sono la cosa migliore del film, anche se forse è stata la scelta a monte ad essere equilibrata: Silvio Orlando ha la sua solita aria da cane bastonato. Francesca Neri non ha fatto molta fatica ad apparire bella e provocante anche sotto i vestiti dimessi. Lascia perplessi e non convince del tutto Ezio Greggio (ancora e per sempre icona del “Drive In”) a sorpresa in un ruolo abbastanza drammatico o quantomeno serio. Alba Rohrwacher dà il meglio di sé: con questo corpo esile e privo di femminilità, i capelli rossi arruffati, gli occhi dolci e timidi, le scarpe grosse e i movimenti scattosi esprime al meglio il disagio di un’adolescente talvolta incompresa, altre volte furiosa, altre ancora completamente fuori di senno.
Articolo del
26/09/2008 -
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