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Ben Carson (Kiefer Sutherland), ex-detective ed ex-alcolista con alle spalle un involontario omicidio di un agente sotto copertura, trova lavoro come guardiano notturno in un magazzino danneggiato tempo prima da un incendio doloso. I numerosi specchi presenti all’interno del luogo che costò la vita a decine di persone nascondono tetri e sinistri segreti, restituendo immagini distorte della realtà. I demoni del passato e quelli del presente agitano quindi la mente del protagonista, che li dovrà combattere per mettere in salvo sé e la propria famiglia.
Il buon Alexandre Aja, dopo il pregevole Alta tensione e il riuscitissimo remake del craveniano Le colline hanno gli occhi, si butta ora su un altro horror, che trae stavolta origine da uno sconosciuto (almeno per noi) film sudcoreano. A parte l’incipit e i secondi finali della pellicola, ciò che domina è lo stato di noia e torpore generale, alimentato da una non indifferente – per il genere – durata di un’ora e quarantacinque minuti. L’espediente dalla specularità (guardando negli specchi vediamo atrocità che non conosciamo, ma se gli specchi riflettono noi stessi allora le atrocità sono dentro di noi) sembrerebbe generare interessanti spunti di riflessione – passatemi il gioco di parole – quando in realtà non si varca la soglia della banalità. Alcuni sprazzi di flebile interesse si trovano, a scandagliare bene, ma la sensazione di già visto estendibile su più fronti – dalla situazione familiare del protagonista, al trauma che riaffiora dal passato, agli spaventi telefonati e costruiti ad hoc dai tecnici del suono – relega questo film al gruppetto (sempre più folto ultimamente) delle occasioni mancate.
Sarà che siamo abituati diversamente, saranno le tradizioni cinematografiche dissimili, sarà un po’ quel che volete, ma le recenti produzioni horror di derivazione para-nipponica, almeno in fase di script, paiono certosinamente fatte con lo stampino. Che andrebbe anche buttato. Stavolta una pregevole nota personalizzante è tentata dalle mani di Aja (una certa dose di gore, ma anche un paio di inguardabili digitalate), sforzo apprezzabile ma non sufficiente alla riuscita della causa perorata dai produttori di questo film, fra i quali figura anche Sutherland stesso. È appunto la regia, e con essa la fotografia, a essere la nota più appagante, a dimostrare che l’omino dietro la macchina da presa il suo lavoro lo sa fare, ma i miracoli quelli no. Essendo l’unico che ne esce fra virgolette vincitore da questo lavoro più marchettaro che altro, con la speranza che le capacità già dimostrateci in passato vengano nel futuro applicate a progetti ben più adatti e modellati a lui.
Visti i disagi economici di questi tempi cercate di spendere bene i vostri spiccioli e teneteli da parte per l’imminente The mist, se siete fan del genere. Perché dopo i tremendi (almeno fra quelli visionati dal sottoscritto) Shutter e Shrooms e quest’altra occasione bruciata, il mio consiglio più sincero è quello di leggere due volte il volantino della multisala prima di aprire il portafoglio.
Articolo del
14/10/2008 -
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