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Mettiamo subito in chiaro una cosa: assistere a tutte le anteprime stampa, programmate in orari adeguati per i colleghi dei quotidiani ma assurdi per chiunque altro - è impresa sovrumana, possibile solo in due casi estremi. Il primo, se siate disoccupati – ma in questa occasione non si spiegherebbe l’accredito giornalistico. Trattasi di circolo vizioso. Il secondo, se siate stati inviati a coprire per intero la manifestazione e non abbiate da correre in qualche redazione a chiudere un giornale. In questo secondo caso, che culo. Per il resto, si fa quel che si può, si piazza la fidata Clio nera su per i marciapiedi e anche i più accaniti giornalai appassionati di cinema si barcamenano fra una guida spessa come il sussidiario di Pinocchio e sterminate file alla biglietteria accreditati, per convertire il convertibile. E se ne esce come la foto racconta chiaramente.
Ieri sera (domenica), stavo per scappar via dopo un pomeriggio filmico, becco Viggo Mortensen. Gran tipo, gran chioma. Nel foyer, all’ora del caffè, avevo incrociato il barbuto Daniele Vicari che usciva trafelato dalla proiezione del suo Il passato è una terra straniera (ho tentato la rush line, ma nulla: fonti sicure mi dicono duro e violento, valido ma non memorabile e con un ottimo Elio Germano). Poi Silvio Orlando, via foto di gruppo. Poi la Air France mi dà un omaggio – per inciso: ma vi pare che dopo un settembre di menate sull’italianità della compagnia di bandiera il vettore ufficiale della manifestazione debba essere Air France-Klm? Rimango con una candela cubica (?) per le mani.
Il pomeriggio era andato piuttosto bene. Prima un salto in sala stampa: calda come Chernobyl e piena di gente che non sa nemmeno allegare un file a una mail. Prendo l’acqua (gratis), due press kit e fuggo. Chiama Matteo, mi tiene (giustamente) al telefono mezz’ora. Ora Chernobyl è nel mio orecchio sinistro. Poi finalmente mi infilo da Bob Marley: Exodus ’77. Il documentario racconta quel mitico anno di lavorazione del disco seminale del giamaicano più famoso del mondo (dopo Usain Bolt? Dai che scherzo!). Ad ogni mese è associato un pezzo e, mantenendo la medesima struttura documentaristica, se ne ripercorre la lavorazione attraverso interviste inedite, momenti di analisi dei testi, vox populi. Bello, ma non troppo. Vicino a me siede un indiano dall’odore particolare. Alla mia sinistra, invece, una ex punker che ci prova (?). E comunque nulla di paragonabile al delizioso Man on wire, visto il giorno prima sempre al Teatro Studio. Si parla di quel pazzoide di Philippe Petit, il funambolo più famoso del globo. Quello che ha camminato sul filo fra le torri di Notre-Dame, del ponte del porto di Sidney e, infine, delle Torri Gemelle di New York (quando erano ancora in piedi, Ça va sans dire). Strutturato come un gustoso giallo, racconta anche la storia di una comune, dell’amicizia che consente queste assurde imprese. E del colore, della creatività nascosti nel sorriso beffardo di Petit: poesia allo stato puro.
Dopo Marley tento appunto l’impresa in Sala Sinopoli col povero Vicari. Marco (l’amico sdrucito con camicia da carcerato) entra, io arrivo davvero troppo tardi. Partecipo alla rissa e poi mi butto sulla Santa Cecilia. C’è Agnès Jaoui che presenta Parlez-moi del la pluie. Ma prima di avventurarsi c’è da far defluire la massa massificata dalla massificazione da Zack Efron e dal suo High School Musical III: mamme, mammine, bambi, bambine, bambine tirate come pornodive, papà assatanati, nonne imbizzarrite, spacciatori e starlette. Manca Bruno Vespa. Entro in Santa Cecilia: galleria 3S. Sono in culo alla balena. I miei occhi soffriranno ancora una volta: non che non capisca il francese, ma insomma qualcosa potrebbe sfuggirmi. Ricorrerò – come l’altro giorno con La banda Baader Meinhof – su quelli in inglese. La pellicola è divertente, francesissima e tagliente. Jean-Pierre Bacrì – in sala – è impeccabile: la storia di una scalcinata coppia di improvvisati reporter che tentano di realizzare un documentario sulle donne di successo e portano un certo scompiglio nelle rispettive famiglie.
Venerdì ero stato – lo so, trattasi di sadomasochismo - alla prima stampa di Un gioco da ragazze, di Matteo Rovere. Vi dico solo una cosa: a tratti i giornalisti sbottavano in grasse risate manco stessero assistendo alle Comiche. E non si trattava di una commedia. Nel film – sorta di Thirteen in salsa pariolin-toscana – succede esattamente quello che deve succedere, quando deve succedere e come deve succedere. E poi, pur sapendo che quel che Rovere ficca nel film è del tutto verosimile e deprecabile, non si capisce perché il tema del bullismo e del nullismo (Moravia!) adolescenziale contemporaneo debba essere trattato in questo modo: tipo fiction cattiva col povero Filippo Nigro che casca nella rete della superfiga Chara Chiti, pompinara (nel film!) da discoteca e ninfomane da due soldi. Tristesse, soccorrimi. Il povero caporedattore, al mio fianco, dorme da un pezzo. La fotografa accusa. Li sveglierà solo la Heineken che gusteremo di fuori, fra tardone imbellettate, personaggi pirandelliani e i soliti spacciatori. Mancano solo Rondi e Anselma Dall’Olio, e saremmo tutti. Capitolo a parte per il film di Uli Edel (quello di Christiane F.), La banda Baader Meinhof: giusta dose di documenti e ricostruzioni, grande perizia nelle scene di massa, credibilità garantita e sceneggiatura impeccabile. Un po’ lungo, ma è interessante l’intento di mettere a confronto la prima e le seguenti generazioni di terroristi della Raf, che oltre a sposare la violenza perdono anche quel barlume, se proprio vogliamo trovarlo, di logica che guidava i primi aderenti. Nessuno ne esce vincitore, non date retta ai giornali: film storico. Punto.
Mettendo fine a questo veloce flashback non posso non tornare al mio esordio al Festival di mercoledì scorso, quando la stampa incontra David Cronenberg: avere di fronte il papà de La zona morta o di Crash è una sensazione galattica. Cronenberg risponde puntuto e preciso, cercando anche il confronto con i panzuti giornalisti che inficiano le poltroncine della Sala Sinopoli. “Tutti abbiamo bisogno di mutare, di cambiare. Il mutamento è intrinseco. C’è chi lo fa in vari modi, chi attraverso la religione per esempio. Noi lo facciamo attraverso l’arte”.
Articolo del
27/10/2008 -
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