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L’idea da cui Lezione Ventuno parte è interessante, anzi si potrebbe dire geniale. Osservare da dietro le quinte, smontare e rimontare, fino a sminuire una delle opere d’arte annoverata tra i grandi capolavori dell’uomo: la Nona Sinfonia di Beethoven. Il compito è arduo, ma Alessandro Baricco prima di essere romanziere e ora regista, è stato critico musicale: sa esattamente di cosa sta parlando, analizza storicamente, socialmente, tecnicamente e umanamente l’opera del povero Ludwig Van scandagliandola in ogni dettaglio.
Baricco racconta la vicenda intorno alla Nona Sinfonia con molti, troppi voli pindarici, poco facilmente riassumibili. Narra dell’anticonformista professor Mondrian Killroy (John Hurt), alter ego del regista, che verso la fine della sua carriera universitaria scrive un libro su circa 180 opere d’arte sopravvalutate, libro che traduce in lezioni. I suoi alunni ne sono affascinati e intrigati e anni dopo ricostruiscono la più interessante di esse: la Lezione Ventuno, quella sulla Nona Sinfonia di Ludwig Van Beethoven, che scrisse dopo ben dieci anni di silenzio. Il panorama musicale (insieme a quello storico e sociale) era cambiato, imperversavano gli italiani come Paganini e Rossini, che non erano certo geniali come Beethoven, ma erano dei virtuosi nell’esecuzione e facevano divertire, e soprattutto rispecchiavano il cambiamento dei tempi.
Narra inoltre di un musicista (Noah Taylor) stranamente trovato morto in mezzo alla neve nel 1830 e che stringeva un violino tra le mani talmente forte che fu necessario seppellirlo con lo strumento. Metaforicamente il musicista prima di morire passa in una sorta di limbo, in cui è obbligato ad ascoltare e assecondare un gruppo di circensi che vivono in mezzo alle nevi. Ognuno di loro ha la capacità di dominare un specifico fenomeno naturale (venti e silenzio, fuoco, ghiaccio) allo scopo di inscenare la sua morte, ma non prima di avere tentato di convincerlo che la famosa sinfonia per Beethoven non è altro che una sconfitta, il magro tentativo di uscire dalla depressione in cui era caduto e di tornare a gioire (“Inno alla gioia”) nonostante la sua sordità, la sua vecchiaia e la sua solitudine. I vari piani narrativi si sovrappongono e si incatenano, andandosi a chiarire, più o meno, nel finale.
Sono molto curiose e divertenti le interviste che intramezzano la ricostruzione, assolutamente improbabili perché fatte a musicisti, cantanti e cicisbei con abiti e parrucche ottocenteschi, mentre il piano della narrazione è a noi contemporaneo. Affascinante è la figura del professore che rompe con tutti gli schemi insegnando che il Partenone è sopravvalutato, che 2001-Odissea nello spazio è sopravvalutato, che la Marylin Monroe di Andy Warhol è sopravvalutata… Anche se non dispiace affatto questo punto di vista, anzi forse dà voce a tutta una serie di perplessità che ci portiamo dietro dai tempi delle scuole, Baricco si perde in speculazioni filosofiche che vanno troppo al di là dell’analisi della Nona Sinfonia, del genio di Beethoven, della sua decadenza e di quanto la cultura contemporanea ha trasfigurato e idealizzato la serata viennese in cui l’opera fu eseguita in pubblico per la prima volta. Leit motiv del film è il cibo: elemento che lega i personaggi reali (non quelli immaginari), che mentre narrano, raccontano, rivivono, ricostruiscono, inspiegabilmente mangiano. Elemento che indubbiamente accentua il punto di vista grottesco e blasfemo del regista sceneggiatore, che distrugge in maniera canzonatoria e ironica questa solenne opera d’arte.
Pur deridendo l’opera, il film non deride affatto l’artista, per cui si prova sempre commozione, stima profonda e affetto, ma come si potrebbero provare per un vecchio che ormai non ha più niente da dare, né da prendere: un vecchio che si avvia alla morte e la cui unica speranza è quella di poter almeno una volta e anche per un solo istante afferrare qualcosa di bello.
Articolo del
29/10/2008 -
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