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Proprio nell’era di Obama, (per una pura coincidenza?), esce un film incentrato su un’ossessione razzista, ma virato verso il thriller per accattivarsi più facilmente lo spettatore medio americano.
Protagonista un inquieto Samuel L. Jackson nel ruolo di Abel Turner, poliziotto afroamericano vedovo, repubblicano, fastidiosamente pignolo, che cova dentro di sé un’irrisolta tensione razzista verso i bianchi, specie altolocati. Quando arrivano i suoi nuovi vicini di casa (siamo in un idilliaco sobborgo di Oakland, California), una giovane coppia di buona famiglia, lui bianco lei nera, la situazione emotiva del poliziotto comincia ad incrinarsi: perché anni prima sua moglie era morta in un incidente d’auto insieme al suo presunto amante bianco, e l’uomo aveva ruminato a lungo l’accaduto. Comincia così ad esasperare e a perseguitare la coppietta, pur non violando alcuna legge (che lui stesso impersona), finché non arriva a spingersi troppo oltre, fino a un classico showdown.
Gli sceneggiatori di Hollywood, maestri di metafore, lasciano che il livello della tensione narrativa sia illustrato, meglio che da mille parole, dalla furia della Natura: è un enorme incendio delle colline californiane che fa da sfondo alla vicenda, peraltro un evento molto diffuso da quelle parti nella realtà. Dapprima distante, se ne sente parlare in tv già durante i titoli di testa, e nessuno dei protagonisti pare badarci. Con il crescere delle frizioni tra il poliziotto e la coppietta, l’incendio si avvicina, pur non raggiungendo ancora le case della zona. Ma quando le fiamme arrivano proprio alle abitazioni dei personaggi di cui abbiamo seguito dappresso le vicende, allora sappiamo che una cruenta resa dei conti è vicina. Resa dei conti che si svolgerà letteralmente tra i roghi delle ville e il fumo nero che oscura il cielo diurno, creando una falsa notte color rosso sangue.
Nonostante il tema del razzismo sia ovviamente importante, tanto da far meritare al film quel pizzico di attenzione in più rispetto a un thriller qualsiasi, purtroppo si respirano stereotipi, soprattutto sul lato delle vittime. E questo è pericoloso per chi guarda: perché Samuel L. Jackson, pur in un ruolo con punte di sgradevole psicosi, è sempre quel carismatico King of Cool che tutti adorano. La coppietta invece, che dovrebbe essere parte lesa nella storia, non risulta affatto simpatica, così prevedibilmente e stucchevolmente liberal fin dall’inizio, che lo spettatore tende a fare il tifo per il poliziotto violento, un personaggio assai più sfaccettato, in barba a qualsiasi tematica antirazzista. Una vita, quella di Abel Turner, tesa tra i compromessi morali insiti nel pattugliamento dei quartieri difficili, e i valori del severo genitore single. Una contraddittorietà riscontrabile anche sul versante dell’odio razziale: quando si è in divisa, bianchi o neri non contano, lo dice lui stesso, ma a casa propria... incombe l’ombra della moglie morta con l’amante bianco.
Alla luce di queste riflessioni si resta perplessi nel vedere come il potenziale della storia sia stato standardizzato, soprattutto nel finale, in un thriller hollywoodiano particolarmente prevedibile. Tanto più che il regista di origini teatrali Neil LaBute aveva firmato opere così controcorrente ad inizio carriera: speriamo non si tratti dell’ennesimo autore travolto nei gorghi di Hollywood...
Articolo del
20/11/2008 -
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