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Dalla nostra inviata a Torino
Andare a Torino durante il festival del cinema significa non solo vedere Cinema, ma anche respirare Cinema, avvertire che l’aria che ti circonda ne è impregnata, senza passerelle e senza paparazzi. Negli ultimi anni abbiamo visto scandagliate senza pudore le cinematografie dei grandi come dei meno conosciuti: da Chabrol a Walter Hill, da John Landis a Wenders, da Aldrich a Cassavetes, da Polansky a Melville e visto che Roma aveva esitato un po’ troppo su W, Oliver Stone ha ritenuto più opportuno concedersi a chi di problemi non se n’è fatti, anzi…
L’unica polemica cui ho l’onore d’essere stata testimone è quella sollevata da Silvano Agosti nell’apprendere che sponsor della manifestazione era la Ferrero e che all’uscita dalle sale sarebberp state regalate confezioni di Pic-nic, lo snack con Nutella e grissini! È stato un meraviglioso entre d’act, considerato che stavo giusto entrando in sala a vedere il suo documentario sulle lotte sociali in Italia tra il ’60 e il ’70: La conquista della vita. Agosti forse non racconta niente di nuovo, non sensibilizza ulteriormente la nostra fin troppo provata coscienza di italiani (che vivono tuttora in quello che a tratti sembra uno stato di polizia e governati da un personaggio di dubbia moralità), ma il suo occhio sempre ingenuo e fresco rende meno pesanti, ma comunque incisive, immagini che ben conosciamo, come gli scontri degli studenti a Valle Giulia nel marzo del ‘68.
Sempre della rassegna “Lo stato delle cose” Baby Formula è il film più leggero: come due lesbiche possano diventare madri senza ricorrere ad alcun “supporto maschile”. La storia è tanto esilarante quanto toccante: fingendosi un documentario e rimpinzata di colpi di scena acquista vivacità, non mancando di affrontare i problemi che la scelta delle due donne comporta nei confronti della società, delle rispettive famiglie e di loro stesse. Solo una regista canadese come Alison Reid poteva girare un film visivamente e concettualmente spogliato di pudori latenti e retaggi stratificati, dove pure le macchiette omosex perdono le sfumature grottesche per diventare vera vita vissuta, come sposarsi, affrontare problemi e crisi di coppia, partecipare ad un Gay pride veramente trasgressivo, tanto che l’inseminazione artificiale diventa un concetto superato!
Per rendere questa cronaca del Torino Film Festival ancora più personale non posso non menzionare di aver visto solo due film il primo giorno, casualmente entrambi legati da un filo: il punk, quello autentico, quello trash, quello senza mezze misure. Se The great rock’n’roll swindle è il racconto di come i Sex Pistols in poco tempo crearono non solo un genere musicale, ma una moda, uno stile di vita, un pensiero politico o meglio antipolitico e antisociale, Jubilee è la visione che si prospetta a Elisabetta I che decide di dare un’occhiata nel futuro regno della sua omonima Elisabetta II durante l’anno del Giubileo della regina. Julien Temple torna dunque felicemente a Torino: se lo scorso anno aveva presentato il suo ultimo (ormai penultimo) film su Joe Strummer, quest’anno con la rassegna “British Reinassance” scopriamo i suoi esordi: un documentario su come nacquero i Sex Pistols, di quale marchingegno commerciale fu ideato dal manager/stratega Malcom McLaren per creare non un gruppo musicale, bensì un vero e proprio mito, che sarebbe rimasto e anzi si sarebbe rafforzato nei decenni successivi. Jarman d’altro canto spara a zero sull’Inghilterra della fine degli anni ’70 e lo fa con la musica, col il sesso, con i costumi e il trucco, con la violenza verbale, con la mondezza, insomma con l’eccesso nella sua accezione squisitamente punk.
Per i “Fuori concorso” ho scelto (o per meglio dire incastrato nella mia tre giorni) New Orleans mon amour e Lake Tahoe. Stringe il cuore vedere il fango che ricopre le macerie di una delle città americane più affascinanti e che nel nostro immaginario di europei sognatori raffiguriamo con case coloniche bianche, strade polverose e afose percorse dalle note di vecchi blues o dalle note jazz provenienti da fumosi e soffocanti locali. Quindi l’idea di un gruppo di volontari che spalano fango e ammassano macerie e la polemica che trapela dalle numerose scritte sui muri è toccante. Lascia invece un punto interrogativo la strampalata e assai poco intrigante storia d’amore e sesso tra il dottore e la volontaria... Lake Tahoe è la strana e commovente storia di un ragazzo che, rimasto orfano di padre da poco tempo, tenta di allontanare il dolore dalla propria vita, dolore di cui invece trabocca la sua casa. Allora vaga per circa 24 ore, incontrando persone che con la loro spontaneità ed esuberanza finiscono col donargli qualcosa: un pensiero, un gesto, un’attenzione. C’è chiaramente un’idea autobiografica dietro a questo lavoro: si avverte dalla semplicità dei dettagli, dalla limpidezza e dalla dolcezza dei sentimenti che sgorgano. La stranezza delle situazioni ha un sapore tutto sudamericano, in cui il tempo è dilatato, le attese eterne, il sesso solo un gioco, l’infanzia abbandonata a se stessa.
Per concludere, tre sono i film che ho potuto vedere del concorso: Non-dit, Helen e Tony Manero che mi riserverò per ultimo. Non-dit e Helen, pur distanti geograficamente e stilisticamente, hanno un fondamentale e fastidioso punto in comune: la protagonista è una ragazza misteriosamente sparita e la cui scomparsa angoscia tutti i personaggi e ne motiva azioni e pensieri. Mentre il primo è la storia di una famiglia distrutta dal dolore e dal dubbio, il secondo affronta con un approccio più sperimentale la mancanza, cui si tenta di supplire con uno scambio di persona. I due film lasciano il tempo che trovano, ovvero sono inutili. Con un ampio volo pindarico passo quindi a Tony Manero, film meraviglioso che mi auguro caldamente possa vincere questo Torino 26. Premessa: il giovane regista cileno Pablo Larrin prima della proiezione dice che non ama parlare del film, perché tutto è già chiaro in esso. Ringrazia educatamente Torino per averlo ospitato e l’Italia tutta, sottolineando che deve il suo lavoro a Pier Paolo Pasolini. Invece di sentirmi lusingata, mi rattristo e finanche mi arrabbio: è mai possibile, mi domando, che l’unica fonte di ispirazione che il cinema italiano possa fornire è un regista morto e sepolto da più di 30 anni? Se non è Pasolini, è Rossellini, è De Sica, oppure De Leo, Fulci o Risi. Possibile che negli ultimi trent’anni non siamo stati in grado di generare, di formare, di partorire un regista che possa essere invidiato, stimato, imitato Oltralpe e Oltreoceano? (Speriamo almeno che la fonte di Sorrentino e di Garrone non si vada ad esaurire e che anzi abbia la forza di creare eco e proseliti). Chiusa la parentesi, inizia il film e subito mi rendo conto che la leggerezza e l’ilarità della evocata febbre del sabato sera è lontana: definire questo film realista è superficiale e forse anche errato. In una Santiago ancora angariata da Pinochet, Raùl spera di vincere ad un programma televisivo la gara dei sosia interpretando il personaggio di Tony Manero. Per immedesimarsi nella parte arriva a curare i minimi dettagli in modo maniacale, fino ad arrivare ad eliminare fisicamente le persone che si frappongo tra lui e l’agognata vittoria. Compie i delitti più efferati senza premeditazione, ma con una indifferenza e una freddezza che raggela più dei delitti stessi. Sullo sfondo la dittatura, la paura latente e l’ipocrisia attanagliano e strangolano. Non ho remore a dire che Pasolini sarebbe stato fiero di questo film/omaggio.
Tanti sono i film che questo Torino ci ha regalato, tanti e tanti ancora ne avrei voluti vedere. Mi sono concessa di terminare la mia permanenza con una chicca di Melville, la cui rassegna avevo inizialmente deciso di non vedere (non certo per mancanza di amore, ma solo per una volgarissima mancanza di tempo), Le cercle rouge. Film crepuscolare, anche perché il penultimo dell’onorata carriera: Alain Delon, Gian Maria Volontè e Yves Montand sono perfetti e formidabili.
La ricercatezza della selezione, la discrezione dei suoi protagonisti, la cura nell’organizzazione, l’atmosfera sobria che aleggiava su tutta la manifestazione fanno di questo festival una perla in confronto a tanto sperpero di denaro e di chiacchiere inutili. Gioisco di fronte a tanta saggezza sfrondata di alterigia e snobismo intellettualoide. La mia chiosa. A questo quadro idilliaco bisogna però dire che non mancano le defaillances: perché Filth and wisdom, il film di Madonna?
Articolo del
27/11/2008 -
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