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Premessa: le colonne sonore di Wim Wenders fanno sempre centro. Colpisce il suo cosmopolitismo, la sua curiosità senza barriere, il fascino che le sue immagini, fotogramma per fotogramma, emanano. Affascina la sapienza nel dosaggio dei colori e nella descrizione delle atmosfere. Palermo Shooting è la storia di un passaggio o, per meglio dire, di un viaggio di crescita e di acquisizione di consapevolezze alla (ri)scoperta di se stesso. Purtroppo tutto ciò suona ed è un po’ retorico.
Finn (Campino) è un fotografo affermato, ricco, affascinante, ormai “venduto” alla moda, ma senza dimenticarsi di ammiccare all’Arte. Il suo lavoro su larga scala lo ha inevitabilmente condotto al digitale, ma un piccolo incidente stradale, che lo porterà a sfiorarsi con la Morte, rappresenterà per lui l’input, la svolta. Decide di fare una serie di scatti fuori programmi all’amica Milla Jovovich a Palermo. Appena atterrato in città si rende conto del fascino che esercita. Vi si addentra, vi si perde, si lascia accecare dai suoi colori, dai suoi odori, dalle sue voci, dalle persone, dagli animali. Conosce Flavia, una giovane restauratrice (Giovanna Mezzogiorno) che, reduce da un grave lutto, lo aiuterà inconsapevolmente ad avvicinarsi alla morte con dolcezza. La ragazza stessa infatti si sta occupando del recupero di un dipinto del XV secolo di un pittore siciliano sconosciuto, Il trionfo della morte. Sul finale (omaggio a Il settimo sigillo) Finn incontra la Morte, qui di bianco vestita e glabra in volto, interpretata da Dennis Hopper, ormai smessi i panni del bad boy.
Come si suol dire in questi casi: Wenders non convince. Interessante il punto di vista critico sull’uso del digitale (nonostante in Palermo Shooting se ne faccia largo uso) e l’attacco alla finzione. Quindi la riscoperta di un approccio più naturalistico non appena toccato il suolo siciliano, a partire dal servizio fatto alla pregna Jovovich. Anche l’avventurarsi nella città con una vecchia Nikon degli anni ‘70 e l’incontro fortuito e fugace (fin troppo) con la fotografa siciliana Letizia Battaglia che ha tra le mani una Laika. Non manca nemmeno la necessità di indagare la realtà attraverso l’obbiettivo per cogliere ciò che neanche l’occhio umano può fissare (concetti già approfonditi in film della levatura di Blow up e La finestra sul cortile). E come ci siamo appassionati ai vicoli di Lisbona, ora amiamo quelli di Palermo e rimaniamo conturbati da quella bella e florida pecora che sembra giocare a nascondino dietro una porta rossa. Quindi il tempo ritrovato, il suo scorrere lento, l’attesa paziente per cogliere l’attimo, quell’attimo e non un altro. E su questa immagine è Fabrizio De André ad accompagnarci: sorprendentemente Wenders inserisce nella superba colonna sonora Quello che non ho del nostro scomparso cantautore, che torna successivamente quando per un pochi momenti Finn afferra l’album cosiddetto “dell’Indiano”. Musica diegetica e musica extradiegetica si fondono fino a formare un unicum, fino a prendere vita nell’incredibile l’apparizione di Lou Reed. La sovrapposizione tra i due piani, quello dell’reale e quello dell’irreale, pervade effettivamente tutto il film.
Ecco la superlativa capacità di Wenders: andare oltre il concetto di spazio-tempo per catapultarci da un’affollata e rumorosa discoteca ad un’affollata e rumorosa piazza baroccheggiante, da un cubo-bunker che rinchiude, inscatola, filtra e le cui finestre “inquadrano”, a un arioso paesaggio che offre un fresco respiro sul Mediterraneo, da una spericolata corsa con la spider, alle passeggiate lunghe e senza meta nei vicoli. Il cambiamento a questo punto è di rito: quello del personaggio, del suo atteggiamento nei confronti delle persone, del mondo e della morte. L’incontro con Giovanna Mezzogiorno è privo di approfondimento e di reali spunti sentimentali, artistici, spirituali e altrettanto incomprensibile diventa lo loro fuga a Gangi. Serviva forse un escamotage per arrivare preparato all’incontro con la Morte.
Articolo del
15/12/2008 -
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