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Celtica sulla spalla destra, svastica sul muro, pistola sempre in tasca. Alcolizzato, violento, brutale, razzista, intollerante. Proletario, disoccupato, indigente. Questo è Rino, l’antieroe di questo ultima fatica di Gabriele Salvatores, approdato, dopo il sole pugliese di Io non ho paura e gli portici umidi e misteriosi di Quo vadis baby?, in un territorio ostile: una provincia friulana alle falde delle Alpi. Neve sulle cime irte delle montagne, cave di pietra, paesaggi algidi. Ambienti miseri e degradanti si alternano ad edifici di cemento armato.
L’unico bene e affetto di Rino è il figlio Cristiano, quattordicenne insicuro, solitario, taciturno, cui vengono inculcati precetti nazisti allo scopo di conoscere il mondo e schivarne i colpi. Un mondo cattivo e ingiusto in cui «La libertà è solo per i ricchi». Loro compagno inseparabile è Quattroformaggi, lo scemo del villaggio, istupidito in seguito a un incidente sul lavoro mai riconosciuto né risarcito. Vive sotto l’ala protettiva di Rino, che lo vede come l’ennesimo rifiuto di una società ormai priva di valori e invasa da extracomunitari. Una società in cui vige la legge del più forte, la legge della giungla, in cui non importa essere picchiati, l’importante è darle più forte, per farsi rispettare e almeno salvare l’onore. Quattroformaggi in preda a un incontrollabile raptus di passione commette un omicidio, uccidendo una compagna di scuola di Cristiano. Rino immancabilmente corre in suo aiuto e rendendosi conto dell’accaduto ha un attacco d’ira che gli causa un’emorragia cerebrale finendo in coma. Quattroformaggi (che quindi tanto scemo non è), intuendo che la situazione volge a suo favore, si alza e se ne va. Cristiano sopraggiunto sul luogo del misfatto e credendo che l’assassino sia il padre, per salvarlo da una sicura accusa di omicidio, occulta in modo assolutamente improbabile il corpo (che infatti viene ritrovato dopo poche ore) e racconta che il padre si è sentito male a casa. Quando Rino si risveglia dal coma il vero colpevole sentendosi spacciato si suicida. Solo a questo punto il ragazzo si rende conto della verità dei fatti e si ricongiunge al padre affettivamente e moralmente.
Quattroformaggi, Rino, Cristiano sono le vittime di una realtà in cui non possono trovare una propria dimensione e che li porta a crearsene un’altra: il piccolo villaggio di casette, pupazzetti e pornostar, la svastica 50 x 50 e solidi principi nichilisti, infine per il giovane Cristiano ancora indeciso tra ipod luccicanti e canzoni melense da una parte e sprangate e pistolettate dall’altra. Non c’è pietas, non c’è giustizia, non c’è affetto per loro, eppure c’è umanità nel senso letterale della parola. L’uomo è visto come uomo fallibile, non giudicato per i suoi ideale: i cattivi non sono del tutto cattivi e gli innocenti non sono così innocenti. Gli ideali nazisti non sono sinonimo di prepotenza, piuttosto di una reazione ad una società prepotente che attanaglia e stritola. Cristiano in un compito in classe inneggia al nazismo e al razzismo, ma rendendosi conto di non poterlo consegnare alla professoressa, non si sente libero di dire ciò che pensa. Sono puniti i benpensanti, quelli che in chiesa invece del perdono inneggiano alla vendetta, quelli che si approfittano di un demente e che deridono e infieriscono su un ragazzo emarginato.
La filmografia di Salvatores annovera film meglio riusciti, grazie anche ad attori e non più capaci, espressivi e carismatici: il ruolo del nazi-fascista non calza a Filippo Timi (che oltretutto ha troppo la faccia da buono!), né gli orpelli del “duro” riescono nella trasformazione. In compenso Elio Germano è uno dei pochi attori che il panorama italiano offre al momento sufficientemente istrionico e duttile da riuscire in qualsiasi ruolo.
Le lacrime finali non sono un lieto fine, perché la situazione non è cambiata di niente, ma semplicemente uno spiraglio, la possibilità di un apertura verso l’esterno.
Articolo del
17/12/2008 -
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