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Leggenda vuole che quando Will Eisner creò nel lontano 1940 le tavole di The Spirit, il suo detective tutto azione e belle pupe, fu costretto dal suo editore a mettere una mascherina sugli occhi del suo eroe: all’epoca era il boom dei supereroi, e un personaggio dei fumetti senza una maschera rischiava di venire ignorato dal grande pubblico. The Spirit fu una vera propria rivoluzione nel mondo del fumetto, in realtà sentita più dagli addetti ai lavori che non dai lettori, che pure però apprezzarono. Eisner fu battezzato “l’Orson Welles del fumetto” per la genialità con cui componeva le tavole e le storie, degna di Quarto potere.
Oggi a Frank Miller, uno dei più grandi fumettisti viventi e che si vanta di essere stato il pupillo del defunto genio, viene affidata l’incombenza di portare sul grande schermo questo glorioso personaggio. Curiosamente, mentre per i cine-fumetti precedenti (Sin City e 300, sue creazioni personali) veniva affiancato da registi e sceneggiatori professionisti, questa volta gli viene lasciata la completa autonomia di realizzazione, firmando di fatto la sua prima fatica cinematografica.
E va subito detto chiaramente: il problema del film è proprio nel manico, non nel soggetto. Miller ha il principale difetto di essere un fumettista, non un regista/sceneggiatore: quindi ciò che riesce a gestire magnificamente sulla carta non funziona così bene sullo schermo, trasformandosi in uno stucchevole tripudio di accesi colori primari, che tentano pretenziosamente di dare un’atmosfera fumettistica alle immagini in movimento. Oltretutto è strano vedere il pesante utilizzo di questi rutilanti elementi visivi da parte di un autore famoso per i suoi disegni scarni e, soprattutto, per la sua magnifica abilità di scrittore di dialoghi cinici e taglienti, che ne fanno uno dei principali esponenti del neo-noir contemporaneo.
Eisner non sarebbe stato contento di questo lavoro: si percepisce la stessa sensazione data dalla visione di A.I. Intelligenza artificiale, l’incontro di due menti incompatibili. Lì era sgradevole vedere Spielberg mescolarsi con Kubrick, come bere del caffè con il sale. Qui si vede uno scanzonato e allegro personaggio dell’Età dell’oro del fumetto immerso in milleriane atmosfere noir tra pioggia, scazzottate nella melma, sparatorie forsennate, e deliranti declamazioni del super-cattivo di turno che potremmo tollerare solo da Tarantino (che almeno è un grande regista).
Di grande restano gli slogan fulminanti che solo Miller sa coniare e che fanno parte della sua bravura di scrittore, tipo “La mia città urla”, che rimandano alla simbiosi quasi erotica tipica del noir tra l’eroe tormentato e l’oscura metropoli tentacolare. Ma è troppo poco per un film, purtroppo: meglio tornare alla carta.
Articolo del
04/01/2009 -
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