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Gli anni ottanta e i primi anni novanta è stato il periodo maggiormente segnato da assassini e stragi di mafia: un periodo che segna la fine della generazione sanguinosa, per lasciare spazio a quella più silente, ma più insidiosa, un periodo che vede il suo culmine negli omicidi dei giudici Falcone e Borsellino.
Proprio in questo periodo si colloca la storia di Rita Mancuso (nella realtà Rita Atria interpretata da Veronica D´Agostino) che per sette anni nei suoi diari, quando le ammazzarono il padre, descrisse dettagliatamente le attività illecite e invischiate con la mafia dei suoi compaesani di Partanna, paesino nell’entroterra siciliano. Solo quando anche il fratello fu eliminato dallo stesso clan decise di diventare un collaboratore di giustizia. Questa scelta le costò molto cara: oltre a mettere a repentaglio la propria vita, a nascondersi, a cambiare domicilio e identità più volte, fu costretta a disonorare la memoria del padre e del fratello e finché rimase sola, rinnegata dalla madre stessa. La storia diventa ancor più triste, come se non bastasse, se si considera al momento del processo Rita non aveva neanche diciotto anni, non era mai uscita dal suo paesino, era sempre e solo vissuta in mezzo alla mafia, pensato come la mafia, respirato mafia. Il padre e il fratello erano stati uomini d’onore e lei stessa, come una donna di mafia, ha come unico scopo quello di vendicare le loro morti.
Lo zelo documentaristico di Amenta, regista e cosceneggiatore, (buona palestra è stato il suo precedente Il fantasma di Corleone, documentario sul processo a Provengano uscito nel 2006, poco dopo la cattura del boss latitante da 43 anni) finisce con l’impoverire anche l’introspezione psicologica dei personaggi, che vengono depauperati delle propria umanità, perché scandagliati fino al midollo, fino a stilizzare sentimentalismi e debolezze. La siciliana ribelle sembra soffrire di una strana “sindrome da melodramma”: come intende descrivere la situazione in cui versa la Sicilia, il cambiamento generazionale che sta avvenendo all’interno della Mafia, il passaggio di testimoni, la spirale di omertà che coinvolge un intero paese pure di fronte ad un omicidio commesso in pieno giorno, così pure non omette alcun passaggio, dall’odio all’amore, dalla paura alla rabbia, dal dolore alla rassegnazione. E trascinato in un turbinio di realismo finisce col diventare didascalico anche là dove sarebbe meglio omettere o lasciare all’immaginazione dello spettatore. Mentre invece le scene “poetiche” perdono assolutamente valore, rese inutili dal reale svolgimento dei fatti, già di per sé carichi di valore assoluto. Valori e sentimenti come la giustizia e la vendetta, sbattuti in faccia lucidamente risultano assolutamente vacui, perché già dimostrati precedentemente o successivamente dai fatti.
Le scene corali sono invece emozionanti e piene del giusto pathos: la cura nel tratteggiare i boss mafiosi, i diversi tipi di ammazzamenti, le litanie funebri delle donne, i rastrellamenti nel cuore della notte o in pieno giorno nella piazza del paese, la processione. Veronica D’Agostino funziona perfettamente con la sua ira funesta, la sua durezza e inflessibilità, perdendo di vigore quando acquista umanità, fino a diventare vuota e senza energia nei momenti più forzatamente sentimentali.
Che Rita Mancuso/Atria abbia vinto la Mafia è opinabile e rimane il dubbio che il suo sacrificio sia stato vano, certo è che questo di Amenta è un raro caso in cui il punto di vista è esclusivamente quello di un pentito, condizione di un agonizzante che non sa se potrà ancora vedere la luce. Una volta visto il vuoto intorno si chiede se e per cosa valga la pena vivere e la solitudine di Rita è il prezzo che ha dovuto pagare per il suo coraggio e la sua caparbietà.
Articolo del
05/03/2009 -
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