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Alcune sinossi convenzionali e traditrici si limitano a raccontare che Randy “The Ram” Robinson, star del wrestling anni ’80 in decadimento, decide di tornare sul ring per un ultimo incontro con lo storico rivale Ayatollah.
In realtà la magnifica parabola interiore di The Wrestler riesce a dare nuova, preziosissima linfa, al classicissimo riscatto del loser attraverso alcune intuizioni. La prima è ovviamente la scelta del mondo del wrestling come principale sfondo alle vicende del film; un non sport nel quale il vincitore viene concordato, per poi pianificare un grezzo spettacolo capace di strappare applausi anche ai più increduli. Siamo già ad un punto fondamentale; Randy, a differenza di un pur degnissimo Rocky, non ha avversari reali sul ring, sapendo già di vincere (come l’incontro finale evidenzierà in maniera struggente) identifica la sfida vera nella quantità di colpi che egli riesce a sopportare incontro dopo incontro. Come può Ayatollah essere il vero nemico? Sul ring sbraita, aizza il pubblico, ma nella vita di tutti i giorni è Bob, un tranquillo rivenditore di auto usate. No, è l’ombra del fallimento ad incombere sul nostro eroe. Uno spettro crepuscolare che si materializza in una deserta session di autografi, nella danza di una spogliarellista come la cosa più vicina ad una romantica situazione amorosa, in una figlia che pensa al padre unicamente come a un fallito. Le frustrate, più che frustranti, umiliazioni subite come dipendente in un supermercato sono i continui colpi da incassare. Altro punto centrale è l’evoluzione del protagonista verso la propria fine; a differenza del già citato Ayatollah/Bob, Randy non possiede un reale dualismo, se non nel tentare goffamente di costruire/recuperare legami fuori dal ring. Se quindi è l’eroico The Ram il vero volto, l’essenza del nostro, l’inconsapevole ricerca approderà infine alla solitudine del ring, dopo un lungo e incompreso percorso di conciliazione. Il processo di eroicizzazione non si dipana attraverso la via crucis di un loser verso la vittoria finale, ma nel malinconico, ultimo ritorno di un freak al proprio ghetto/ovile.
Qualche mese fa, a prima vista, da un film sul wrestling firmato Darren Aronofsky ci si aspettava il peggio. Diventa allora ancora più piacevole lasciarsi sorprendere dalla sua scelta iperrealistica e decisamente antispettacolare, ben distante dagli estremi toccati con Requiem for a Dream e, soprattutto, dai patinati slanci New Age del poco convincente The Fountain. La macchina da presa si incolla alle spalle di Mickey Rourke durante lunghe camminate, attraverso un deciso pedinamento che ricorda qualcosa dei fratelli Dardenne più che di Gus Van Sant, per poi esplodere sul volto tumefatto ed emozionato del fu Rusty James. E proprio il signor Rourke strappa lacrime ed applausi, calando in Randy Robinson le proprie cicatrici da ex pugile, interrogandosi impietosamente con il personaggio su quanto sia sottile l’orlo del precipizio, e su quando, una volta caduti e iniziata la risalita, ci si possa effettivamente lasciar andare senza rimpianti. Con buona pace del pur ottimo Sean Penn/Harvey Milk.
Sulle note dell’emozionante coda firmata Bruce Springsteen il capolavoro di Aronofsky e Rourke viene sancito già come una delle uscite dell’anno. Consiglio caldamente di vederlo entro venerdì, prima che magari con l’uscita di Gran Torino vi ritroviate di fronte all’infame possibilità di scegliere fra due pellicole necessarie.
Articolo del
09/03/2009 -
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