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Il film si apre con Ken Park - tipico giovinetto americano, rosso di capelli, zaino in spalla e skate sotto braccio - che si suicida nel modo più ostentato possibile: al centro di una affollata pista per i maniaci delle rotelle, autoritratto da una videocamera digitale. Ken Park, un nome un destino, ci informa di lì a poco la voce narrante di un altro tipico adolescente a stelle e strisce: Park, letto al contrario fa krap, ovvero merda. Park si suicida perché non regge la “krap” che lo circonda, non riesce a immergersi felice in quella vita fatta di villette unifamiliari, pick-up sul vialetto di ingresso, divani al centro della stanza, bidoni di latte nel frigo, mamme siliconate, papà intristiti, nonni da cartolina, falsi pudori, morali stantie, lavori schifosi, responsabilità schiaccianti nel vuoto emotivo più totale. Park si suicida e si riprende in digitale: la morte non dà scandalo (sembra quasi una logica conseguenza…), al massimo fanno schifo il sangue e la testa che esplode. E’ qui la provocazione e lo scandalo del film: non tanto nelle storie che intreccia, come qualche psichiatra da TV vorrebbe farci credere, ma nel modo di raccontarle, nella decisione di far vedere ostentatamente (come fa Ken Park quando si suicida) ciò che normalmente si tiene chiuso in una stanza, si preferisce risparmiare ai propri simili. E’ la famiglia ad essere alla frutta, il modello borghese di famiglia che implode (i modelli aristocratico e proletario, peraltro, vorrei proprio che qualcuno mi spiegasse come sono…), ci spiega sempre il solerte psichiatra/sociologo/massmediologo: non lo so, forse non ci credo, ma a voler attenersi al film, ad essere implosi e alla frutta sono gli individui che compongono le famiglie, erosi da una vita improbabile e dall’incapacità di metabolizzare le infelicità. In questo senso il film è riuscitissimo, addirittura equilibrato: il fenomeno della follia strisciante e dilagante è sotto gli occhi tutti, basta prendere la metropolitana nelle ore di punta o entrare in un grande ufficio o andare in vacanza in un villaggio turistico. Ciò che stona è forse l’estremizzazione di una scelta stilistica in astratto condivisibile: nel secondo tempo (oggi è meglio dire: la seconda parte del film, il ragazzo pop corn non passa quasi più) c’è quasi la voglia precisa di colpire con particolari sgradevoli che risultano tuttavia gratuiti (un esempio per tutti, la masturbazione ostentata del giovane maniaco omicida…), sembra quasi si voglia costringere il pubblico a volgere lo sguardo e il critico ad appuntare sul taccuino reazioni sdegnate che, una volta pubblicate, faranno correre al cinema i più pruriginosi. Furbizie a parte, resta il documento, lo spaccato di orrenda e banale vita quotidiana che dovrebbe essere sotto gli occhi di tutti ma che, normalmente, preferiamo non vedere.
Articolo del
18/07/2003 -
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