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L’apertura del film ci informa dell’esistenza di persone dotate di poteri, sparse in tutto il mondo, braccate da una malvagia Divisione che vorrebbe sperimentare su di loro a fini militari. Posto questo come punto di partenza viene da chiedersi: cosa c’è di nuovo che non si sia già visto, tanto per fare un esempio, nella serie tv Heroes? Eppure Hollywood sa come vendere un prodotto, e chi si è sorbito già innumerevoli supereroi in tutte le salse, non può resistere a questo ennesimo richiamo, come una mosca sul miele. Solo che non sempre è miele.
In una Hong Kong dai colori ocra, refugium peccatorum, un tormentato, bovino e telecinetico Chris Evans (chi ricordava il suo buffonesco carisma nei Fantastici Quattro resterà deluso) orfano a causa della Divisione, si ritrova coinvolto in un intrigo che potrebbe cambiare le sorti del mondo. In compagnia di una ragazzina veggente e della sua super ex, manipolatrice psichica, si ritroveranno a sfidare l’organizzazione dei malvagi.
Fin dai tempi della gloriosa Marvel degli anni ’60 si era capito che i superpoteri creano superproblemi, ora si è fatto un altro passo: chi possiede dei poteri non necessariamente vuole indossare calzamaglie variopinte, e magari non è particolarmente ansioso di salvare (o conquistare) la Terra. Gli eroi di Push si muovono per salvare più che altro i propri affetti personali, e solo incidentalmente opporsi al Male. Questo fa sì che nelle ultime pellicole ambientate in scenari supereroistici o similari, la parte più interessante diventi quella sentimentale e psicologica dei personaggi, le loro storie disturbate, piuttosto che le grandi battaglie con esplosione di sfavillanti raggi variopinti.
Push ha il grave difetto di sollevare l’interesse dello spettatore solo nelle super-scazzottate, tanto sono stucchevoli e prevedibili le scene introspettive. Ed è un peccato, perché sulla carta avrebbe avuto delle interessanti potenzialità. Da elogiare la scelta della tentacolare Hong Kong come location della vicenda, fotografata come un impasto color ocra: città-formicaio nella quale si possono far perdere le proprie tracce. Ma soprattutto un cast ben assortito, dove un protagonista (qui poco incisivo purtroppo) è affiancato da un’ormai cresciuta, anche artisticamente, Dakota Fanning e il sottovalutato ma sempre solido africano Djimon Hounsou. La prima, ex pupilla spielberghiana, comincia a scrollarsi di dosso le sue ben note arie da spocchiosetta con il ruolo della veggente Cassie, tenera punk ribelle: segretamente innamorata del protagonista, quando lo vede appartarsi con l’ex, si attacca alla bottiglia e scatena una spassosa scenata alcolica. Il secondo, spalla di lusso dell’action movie sempre più in ascesa a Hollywood, pur in un ruolo da cattivo stereotipato (che avrebbe potuto essere di Samuel L. Jackson) buca lo schermo con poche ma riuscite pose minacciose. A parte la loro valida presenza, e quella di altri due o tre personaggi azzeccati, e i pur curati effetti visivi, c’è aria di routine. E il finale aperto lo rende paurosamente simile ad un pilot di una serie tv, di cui forse (e per fortuna) non vedremo altro.
Voto: 2/5
Articolo del
03/04/2009 -
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