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Ben, produttore hollywoodiano con due matrimoni alle spalle, è alle prese con un paio di grattacapi: riuscire a modificare il finale di un action movie diretto da un regista – novello Keith Richards nell’aspetto – alquanto irascibile, e convincere Bruce Willis a tagliarsi la folta barba prima che arrivi il giorno delle riprese. Vita privata e inesorabili quanto curiosi passaggi produttivi si intrecciano nell’arco temporale di due settimane.
Cinema che parla di cinema, dunque. Nulla di nuovo, ci sono già passate generazioni di registi, restituendoci svariate visioni allo specchio dello stesso mondo misterioso. Perlopiù dissacratorie, poichè svelano l’impalcatura che sorregge un mondo fatato del quale ci interessa solo la facciata esteriore; un po’ come scoprire chi si cela dietro al mago di Oz, con tutta la delusione che ne consegue. Viale del tramonto, I protagonisti, Boogie Nights, Bowfinger, Mulholland Drive: non sono che alcuni titoli riguardanti in qualche misura la fagocitante macchina-cinema.
Disastro a Hollywood segna, dopo anni che paiono secoli, il ritorno di un De Niro versione bravo attore (non chiediamo le performance dei tempi d’oro, ma almeno stavolta più del minimo sindacale l’abbiamo), impegnato in una pellicola che si possa definire tale e che gli permette di rispolverare qualità recitative dimenticate. Con la firma di Barry Levinson, il cui nome risulta spesso ingiustamente sconosciuto alla massa nonostante siano vent’anni che mezzo mondo versa lacrime sul finale di Rain Man, per dirne uno. Stavolta il punto di partenza è il libro What Just Happened del produttore Art Linson, uno che di cinema ne ha mangiato e parecchio.
Il punto di forza del film è il puntare al grande pubblico non solo cinefilo, vestendo l’abito della commedia insinuandosi nelle pieghe del dietro le quinte della dream factory d’oltreoceano. Nulla di sconvolgente viene aggiunto al (circoscritto) calderone dei film metacinematografici, ma la peculiarità dell’opera in esame sta nel riuscire a barcamenarsi in perfetto equilibrio fra la commedia e la messa a nudo del vorace dark side della Mecca del Cinema. Dove la creatività registica si prostiuitsce al servizio del dollaro o delle bizze della stella da manifesto di turno (il che poi riconduce sempre e comunque al dollaro, gira e rigira) – non è un caso che il finale si svolga a Cannes, forse l’unico luogo incontaminato del settore. Altro che Arte e Autori, l’industria americana sforna movies come barattoli da mettere sullo scaffale, che sono capolavori se chi investe venticinque milioni ne ricava cinquanta. «E alla fine né regista, né star. Neanche il titolo. Solo un numero, un bel numero». Parole di Ben.
Dialoghi perfetti per un cast pennellato, che comprende oltre al già lodato Robert De Niro, e a Sean Penn e Bruce Willis nella parte di loro stessi, anche John Turturro e Stanley Tucci, due che se vogliono sanno fare i caratteristi come pochi altri. Alcune scene velocizzate in fase di montaggio stridono un po’ (visivamente parlando) col resto del materiale, mentre geniale è in certi casi l’uso della colonna sonora diegetica: Ben/De Niro ascolta in auto il cd con le musiche del film in post-produzione, contrappuntando perfettamente le immagini sottoposte ai nostri occhi. Con tanto di cameo sonoro (un po’ ruffiano) di Morricone.
Non ci avrei scommesso più di un euro su questo film, forse viziato dalla presenza di De Niro che da alcuni anni non ne imbrocca una. Ma sono felice e soddisfatto di potervelo consigliare.
VOTO 3,5/5
Articolo del
23/04/2009 -
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