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Prima di essere bello o brutto, ‘Buongiorno notte’ è un film ricco: ricco di idee, di suggerimenti, di chiavi di lettura, di ipotesi su quel che sarebbe stato se…. E se giocare con i ricordi può essere un gioco facile, è un bene che un autore come Bellocchio abbia trattato la vicenda Moro evitando le trappole della rivelazione dei segreti (spesso di Pulcinella), o dell’accusa al ‘potere’ (talora usando un linguaggio condiviso più con le Br che con le loro vittime). Semmai il limite oggettivo del film è che il gioco della memoria, il rimando reciproco fra ciò che scorre sullo schermo e ciò che ci torna in mente, funziona per chi abbia un vissuto legato alla vicenda, meno per chi non abbia (per l’età, o perché straniero) la possibilità di ri-vivere quei fatti. In questo caso il punto di vista dall’interno della ‘prigione del popolo’ non ha un punto di vista personale con cui confrontarsi, e resta appesa a troppe incognite per dare un risultato altrettanto convincente. Così come non bisogna fare l’errore di credere che raccontare la vicenda dal punto di vista delle persone (rapitori e rapito) e non di ciò che accadde nei palazzi del potere, possa legittimare la conclusione che ‘Buongiorno notte’ sia un’opera ‘personale’ e non ‘politica’: il giudizio, discutibile, che regge il film è che il non trattare, la fermezza scelta dalla Dc, equivalesse a non voler salvare Moro. Questo giudizio (che non è il centro del film, ma ne è la premessa) porta Bellocchio ad accreditare ricostruzioni discutibili e almeno in un caso di pessimo gusto (Paolo VI imbelle burattino nelle mani di Andreotti è un falso che nessuna licenza artistica può giustificare). Ma se il film è oggettivamente politico, il suo punto di vista è psicologico. Venticinque anni dopo, la memoria dell’autore elabora i fatti e li ricostruisce sullo schermo sul quale, assieme alle immagini, ognuno proietta i propri ricordi dei due mesi in cui Moro fu prigioniero delle Br in una ‘prigione del popolo’, che poi era casa normale, abitata da una famiglia apparentemente come tante. La famiglia è il ‘luogo’ del film, che ci porta dentro a quella casa-prigione raccontandoci parodie di riti familiari inscenati dai brigatisti, la preoccupazione di Moro per i suoi cari; il rivivere fra ostaggio e rapitori del rapporto padre-figlio (la questione nodale del ’68 e ciò che ne è seguito, terrorismo compreso). E dentro alla famiglia, il punto è chi sia l’unica donna. Donna che si ribella (potrebbe ribellarsi) alle autorità (che anche nelle Br sono tutti maschi); ma anche donna in senso tradizionale, madre che porta al vita e non vuol dare la morte, quasi ‘angelo del focolare’ (sia pure un focolare brigatista), che con la cura della casa stabilisce un legame fra il prigioniero (che, uomo del mondo vecchio, intuisce la presenza femminile ‘da come sono piegati i calzini’), e la ‘signorina’ che lo osserva dallo spioncino. È questo legame che avrebbe potuto partorire una conclusione diversa: il copione scritto fin dal giorno del rapimento (lo stato non cede al ricatto, le Br uccidono l’ostaggio) potrebbe cambiare in un punto solo. Questo punto è Chiara; è lei che potrebbe scrivere l’altro finale, un gesto che sarebbe di ribellione alla famiglia brigatista, ai suoi doveri, agli slogan ripetuti come un mantra fino a estraniarsi dalla realtà; solo lei potrebbe restituire quel nonno al nipotino, quel marito alla moglie. È lei la speranza raccontata e frustrata del film: una donna abbastanza antica e abbastanza nuova da riscoprire in sé le ragioni della disobbedienza al potere maschile, che da parti opposte corre verso la morte.
Articolo del
10/09/2003 -
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