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Presentato in anteprima nella sezione “Extra” della Festa del Film di Roma, il docu-film diretto da Andrew Lang, regista ventisettenne esordiente, è una splendida quanto drammatica fotografia della Cuba di oggi. Attraverso lo sguardo già duro ma al tempo stesso estremamente fragile di tre ragazzi della prestigiosa Havana Boxing Accademy, il regista riesce a cogliere molte di quelle sfumature e di quelle contraddizioni che fanno di questa piccola-grande isola, nel bene e nel male, un posto unico al mondo e non paragonabile a nessun’altra realtà che vi si voglia accostare forzatamente.
Il film si apre, come è giusto che sia, con una panoramica sulla splendida e decadente Havana City, che, ricordiamo, è patrimonio mondiale dell’Unesco. Ciò permette al regista di impostare come sottofondo continuo e presente in tutto il film uno degli elementi più caratteristici della realtà cubana: la voce di Fidel Castro, il lider maximo, in uno dei suoi interminabili discorsi alla radio, dove specifica che «sul fronte dello sport la rivoluzione avanzerà». Ed è appunto lo sport, in questo caso la boxe, ad essere utilizzata come metafora di vita in un paese, che tra le mille difficoltà del vivere quotidiano, riesce sempre ad essere protagonista in alcune discipline a livello mondiale.
Così il regista mette la macchina da presa “dentro” la vita in diretta di tre ragazzi di dodici anni, boxer a tempo pieno dell’accademia. Cristian, il nonnetto; Santos, il cantante; Junior, il dalmata: sono solo tre dei tanti ragazzi che frequentano quella “prestigiosa” accademia di box: un fatiscente casermone bianco; dove la sveglia è alle 4 di mattina e dove l’acqua delle docce e dei rubinetti arrugginiti è solo ghiacciata; dove la palestra è un cortile bagnato e sporco, dove non ci sono macchinari per gli addominali se non grandi martelli con cui i ragazzi colpiscono a terra enormi copertoni di gomma; dove il ring è fatiscente come le camerate dove si dorme, dove la mensa offre cibo inguardabile ma comunque controllato per bilanciare il peso dei ragazzi; dove per cercare di mantenere il peso forma senza dover rinunciare a qualche golosa frittella si dorme dentro piumoni incredibilmente pesanti, per sudare e bruciare liquidi e grassi; dove soprattutto c’è Yosvani, l’allenatore di tutti quei ragazzi che sono come figli e che vanno trattati tutti allo stesso modo, secondo la rigida ma giocosa disciplina di quello sport. Hanno un obiettivo comune, quei ragazzi: vincere il campionato nazionale. Ed un sogno: partecipare alle olimpiadi del 2012. Il loro allenatore-padre-psicologo Yosvani ha il difficile compito di prepararli tutti al meglio delle loro potenzialità, ben sapendo che per lui ogni anno arriverà il drammatico momento delle scelte, cioè il momento delle convocazioni e dunque inevitabilmente delle esclusioni («come si fa a scegliere? Sarebbe come chiedere ad un padre a quale dei tuoi figli vuoi più bene» dice). Cosi, dopo mesi di durissimo allenamento, di sudore, fatica e lacrime (vere) arriva quel momento, le convocazioni, le esclusioni, la partenza in pulman (occhio: pullman con vetro davanti incrinato) per il luogo delle gare nazionali. Dove la squadra dell’Havana dovrà vedersela con le altre fortissime scuole di Matanzas, Pinar del Rio, Cinfuegos.
Emergono, in questo cammino duro e spietato, molti elementi su cui il mondo occidentale dovrebbe ogni tanto riflettere: lo sport è innanzitutto disciplina, regole che vanno rispettate, sacrificio, spirito di squadra. Queste sono cose che servono anche nella vita, per essere uomini degni, educati, uomini che capiscano che dal loro comportamento dipenderà il successo o la sconfitta della squadra, e dunque, metaforicamente, dell’intera società. Lo sport insegna a vincere, ma soprattutto a perdere: tra quei ragazzi chi vince abbraccia sempre l’avversario sconfitto, mai lo umilia, ed anzi spesso lo prende in braccio come fosse l’altro il vincitore. Lo sport rafforza l’amicizia: durante i combattimenti negli allenamenti chi ha battuto il suo amico è triste, perché è come se in quel momento avesse tradito la loro amicizia. Lo sport obbliga a delle scelte: quando Yosvani dice che sono tutti suoi figli sappiamo che non è ipocrisia di facciata, la sua. Perché quando deve scegliere chi tra tutti quei suoi figli dovrà portare alla gara nazionale e chi no, la telecamera impietosa e perfetta lo riprende da solo, nel bagno dell’accademia, mentre piange. Lo sport non ha necessariamente bisogno di grandi infrastrutture e grandi investimenti: servono motivazioni, perché quei ragazzi, che in quella disciplina cosi come in altre (baseball, pallavolo, basket) ottengono sempre risultati eccellenti, non hanno nulla se non la consapevolezza che da quella povertà estrema da cui provengono ne possono uscire diventando dei campioni.
Non sveliamo l’esito degli incontri, non raccontiamo chi sarà il vincitore ne se la squadra dell’Havana che abbiamo seguito per tutto il film ce la farà a trionfare oppure no. Perché il punto è un altro: su quel ring non ci sono ragazzi che si combattono. Ci sono ragazzi che combattono, che combattono per una vita migliore, che combattono contro un nemico vicino e potente, che combattono per una rivalsa sociale. Su quel ring ci sono i figli di Castro malato, che abdica in nome del fratello alla guida del suo popolo, che per la prima volta non può partecipare alla sfilata del primo maggio per la sua malattia e viene sostituito dall’imitazione in maschera (e in discorso politico) da uno dei ragazzi, ci sono i figli di una intera nazione, che vede in loro un futuro migliore e per questo li tifa senza mai farli sentire nemici, perché “tutti” quei ragazzi sono il futuro di una unica nazione. Su quel ring ci sono i figli di Cuba, che noi non capiremo mai perché da tempo abbiamo smesso di avere una madre.
VOTO: 4/5
Articolo del
23/10/2009 -
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