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Giugno 1982, guerra del Libano: un plotone di soldati israeliani viene inviato in una cittadina già bombardata dall’aviazione per verificare da terra gli esiti del bombardamento ed uscirne rapidamente, per raggiungere l’Hotel Saint Tropez e procedere oltre con altra e più difficile missione. Ma, nonostante l’ufficiale capo rassicuri che «fino al Saint Tropez è una passeggiata», qualcosa và storto, ed il plotone di soldati finisce in trappola, sotto tiro in un quartiere controllato dai siriani. Cosi il comando israeliano, anziché mandare rinforzi per togliere i suoi soldati dalla morsa nemica, manda due ambigui falangisti (la falange era l’organizzazione arabo-cristiana alleata con Israele durante quella guerra) che però non riscuotono la fiducia degli israeliani, i quali, raschiato il fondo del loro coraggio e delle loro motivazioni, decideranno di operare con la loro autonomia e la loro strategia per tirarsi fuori da quel pericolo.
La guerra, come lo sport, è il tema che ha dato più spunti al cinema, generando capolavori assoluti come Apocalipse Now, La sottile linea rossa, Salvate il soldato Ryan, Il cacciatore, Black Hawk Down, Platoon e molti altri. E si possono scegliere, ovviamente, tanti diversi modi per raccontarla: quello scelto dal regista Maoz è senza dubbio efficace, oltre che geniale perché mette la macchina da presa dentro il carro armato del plotone, e a quel punto l’occhio verso il mondo esterno è dato dal cannocchiale-mirino del carro. Cosi può focalizzare l’attenzione su due piani separati: c’è un interno, con le vite dei carristi che, all’inizio quasi candide (soldati sorridenti che pensano che al massimo entro un paio di settimane saranno di ritorno a casa) nel corso degli eventi si sporcano: di sangue, di paura, di odio, di ipocrisie, di ricordi lontani. Si sporcano come l’abitacolo del carro, diventato fatiscente per i colpi di mortaio che lo hanno colpito, per il cadavere di un loro compagno trasportato per un tratto di strada, per il sangue e gli escrementi di un nemico catturato e tenuto ora prigioniero. Si sporcano perché la guerra sporca, tira fuori la parte assassina dell’uomo, se non altro per salvare la propria vita.
E poi c’è l’altro piano, quello esterno, quello visto con il cannocchiale del carro: quello che sembra quasi di un videogioco, dove basta inquadrare e premere il grilletto. Ma la guerra non è un videogioco, e la bravura del regista è proprio quella di trasformare lo sguardo di quel cannocchiale in occhio attento a quanto di aberrante la guerra, ogni guerra, produce. Cosi quel cannocchiale inquadra una macchina con due terroristi lanciatagli contro, ma non spara perché il carrista è preso dal panico. Inquadra un piccolo furgone con un uomo anziano, e spara, carbonizzando il furgone e mutilando spaventosamente quell’uomo innocente. E questo è già il forte messaggio del film: in guerra muoiono gli innocenti. Concetto che si rafforza poco dopo, quando il cannocchiale inquadra guerriglieri siriani che si fanno scudo con ostaggi civili, donne e bambini, e spara di nuovo, uccidendo gli uomini e i bambini innocenti e stringendo poi l’inquadratura sul volto urlante di dolore della donna rimasta sola. O quando inquadra gli occhi di un vecchio, seduto al tavolino di un bar, che guarda dentro quel mirino che lo inquadra, ed accanto a lui c’è un altro vecchio riverso sul tavolo, morto. O ancora quando inquadra un asino, dilaniato da una bomba, ma ancora vivo: l’occhio-cannocchiale stringe sugli occhi sofferenti del povero animale, e con la stretta inquadratura si vede una lacrima uscire da quegli occhi.
Immagini forti, dunque, toccanti: ma bellissime ed efficaci. Questo modo di raccontare la guerra lo abbiamo trovato originale, in grado di sconvolgerci nonostante ci sia ormai in noi il rischio di una certa assuefazione alla sofferenza raccontata attraverso una telecamera. Invece questo film ha il potere di farci entrare dentro quella guerra, dentro quel dolore, di farci assaporare quel sangue innocente e di farci sentire l’odore di carne bruciata. E se ancora ce ne fosse bisogno questo film rafforza il concetto secondo cui in ogni guerra le vittime più frequenti sono esattamente coloro che quella guerra non la stanno combattendo, e cioè le persone indifese, i vecchi, i bambini, le donne e gli animali. E in merito al voler evidenziare da parte del regista anche la sofferenza animale, sottolineiamo come troviamo ciò estremamente giusto, ed a questo proposito ci sentiamo di paragonare questo film ad un altro capolavoro sulla guerra del Libano che lo scorso anno ha avuto il merito di vincere l’oscar come miglio fim straniero: stiamo parlando di Valzer con Bashir, anche qui c’è una scena in cui uno dei protagonisti, ricordando le incursioni nei villaggi nemici, era rimasto particolarmente scioccato dalla agonia di un cavallo, anch’esso dilaniato da una bomba ed ancora vivo. Anche Lebanon, come il suddetto Valzer con Bashir, ha avuto il suo giusto riconoscimento, avendo vinto quest’anno il Leone d’oro come miglior film alla 66esima mostra del cinema di Venezia. Speriamo pertanto che questo riconoscimento della critica possa valergli un altrettanto alto riconoscimento del pubblico: noi, nel nostro piccolo, lo cataloghiamo senza alcun timore reverenziale assieme ai grandi titoli di guerra citati sopra, sperando così di dare un piccolo contributo per un meritato successo di questo grande film.
VOTO: 4/5
Articolo del
28/10/2009 -
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