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Esattamente vent’anni dopo il suo film di esordio Roger And Me, espressamente citato in questo sua ultima fatica cinematografica, Michael Moore torna ad affrontare le storture socio-economiche causate dal sistema capitalistico. Ma mentre nel precedente film focalizzava la sua analisi sulla circoscritta situazione della sua città natale, Flint, Michigan, ove la General Motors aveva da poco licenziato migliaia di lavoratori, stravolgendo completamente il tessuto socio-economico di quell’America di provincia e delle sue famiglie, ora Moore allarga il proprio orizzonte di analisi, cercando di mettere in luce come e perché un sistema economico improntato solo ed esclusivamente alla massimizzazione dei profitti generi di fatto in America (e di conseguenza nel mondo intero) sperequazioni sociali deprecabili, tali che l’1% della popolazione abbia a disposizione il 95% della intera ricchezza del paese. E per dimostrarlo parte addirittura da un confronto storico con l’impero romano, la cui decadenza iniziò con la mancanza di rappresentanza popolare dei suoi senatori, eletti non più dal popolo ma per decreto. Ed in effetti quello che ci svela, dell’America di oggi, è che anche il più grande e potente paese del mondo elegge il proprio presidente ed i propri rappresentanti attraverso una lobby di banchieri e grandi finanzieri di Wall Street che di certo non hanno a cuore una equa distribuzione del reddito.
Con il suo stile ormai consolidato, in cui alterna pezzi di archivi storici a (tentativi) di sue interviste con i potenti di oggi, l’analisi di big Michael segue un filo conduttore ben preciso: fino ad un certo punto della sua giovinezza, nonostante il sistema economico americano fosse già un sistema di capitalismo avanzato, si stava bene (o almeno questa era la sua sensazione in relazione al benessere diffuso che proveniva dal lavoro e dal reddito del padre, semplice operaio nella fabbrica della GM di Flint). Ma poi questa “storia d’amore” si interrompe bruscamente con l’avvento alla presidenza di Ronald Reagan negli anni ‘80: un uomo messo lì a fare da portavoce ai grandi gruppi bancari, che addirittura potevano permettersi di dettare al presidente i tempi dei suoi discorsi (“si sbrighi, non abbiamo molto tempo”, sussurra all’orecchio di Reagan il presidente di una grande banca americana durante un suo discorso). Un presidente che fu determinante per lo smantellamento di tutte le grandi infrastrutture delle città americane e delle aziende pubbliche, e che accelerò con le sue deregolamentazioni il passo verso un sistema che tagliava fuori dalla distribuzione della ricchezza prodotta un numero sempre maggiore di cittadini americani.
Da quel momento in poi e nonostante la parentesi Clinton alla presidenza che ha dato un minimo di alternanza tra repubblicani e democratici, il cammino dell’America e del suo sistema economico è stato un veloce declino verso una società talmente cinica ed immorale da valutare, con precisi calcoli matematici, se i propri cittadini valessero più da vivi o da morti (assicurazione del contadino morto) . Fino ad arrivare all’epoca di G.W. Bush, storia recente ed imbarazzante, sotto la cui presidenza prende forma consistente quella che poi è diventata l’attuale crisi finanziaria, fatta di derivati cosidetti subprime che né un professore di Harvard, né un analista di Wall Strett intervistati da Big Michael riescono a spiegare senza rendersi conto di dire cose incomprensibili come quei prodotti. Una epoca in cui addirittura buona parte della Chiesa (e questo in un paese a forte esaltazione cattolica-cristiana come l’America è particolarmente significativo) attraverso alcuni preti e vescovi intervistati da Big Michael esprime la loro condanna ad un sistema capitalistico che esalta valori e principi esattamente opposti a quelli contenuti nella Bibbia.
Insomma, anche stavolta, come per i suoi precedenti docu-film, Moore lancia un messaggio forte e chiaro che non vuole solo informare o fare prendere coscienza di tutte quelle storture con cui conviviamo ormai da anni: Big Michael vuole mobilitare le coscienze affinché ci sia una reazione in ognuno di noi; affinché ci siano operai che, di fronte ai loro ingiusti licenziamenti in cui il sistema capitalistico sta scaricando i costi della crisi, occupino le loro fabbriche almeno con l’obiettivo di ottenere il giusto risarcimento; affinché dopo il passaggio di uno dei tanti uragani (non finanziari, questa volta) sui tetti delle case sommerse dalle acque ci sia qualche grande banchiere o qualche speculatore finanziario a chiedere aiuto e non i soliti poveri; affinché la legge assicuri alla giustizia i responsabili delle crisi che mandano sul lastrico migliaia di piccoli risparmiatori (divertente quanto graffiante la scena in cui Moore circonda con il nastro giallo “scena del crimine” uno dei palazzi di Wall Street); affinché si possa una volta e per sempre attuare quella seconda carta dei diritti che tanto avrebbe voluto il presidente Roosevelt, e che prevedeva tutto ciò che in Europa sarebbe diventato lo “stato sociale” e che in America invece non si è mai messa in pratica (diritto al lavoro e ad una retribuzione dignitosa, diritto ad una sanità pubblica, diritto ad una scuola pubblica, diritto ad una pensione ecc.). Cioè tutte quelle tematiche che sembrano essere state riprese da Obama, al quale non a caso vengono dedicati spezzoni di documentario durante la sua elezione e tra la sua gente.
Demagogo? Sognatore? Illuso? Forse: ma anche stavolta il pugno di Moore ci arriva dritto allo stomaco e ci lascia per qualche minuto senza fiato. Noi, come lui, ci auguriamo che sia qualcosa di più di una semplice presa di coscienza, sprattutto per non lasciarlo più solo e dare seguito al suo appello finale: «sono stanco di fare tutto questo, ma se c’è di voi qualcuno pronto a seguirmi, allora non smetterò». E noi ci auguriamo davvero che tu non smetta, Big Michael!
VOTO: 4/5
Articolo del
04/11/2009 -
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