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Aman è un ragazzo somalo che vive a Roma da quando aveva quattro anni, lavora in una concessionaria di macchine usate dove ha il compito di pulirle ma non di venderle, ha un fratello maggiore in Canada diventato un rapper di successo e frequenta suo cugino Said che presto lo lascerà per andare a Londra. Spesso, insieme con Said, salgono il sabato sera sulla terrazza di un palazzo per vedere dall’alto le strade della capitale bloccate dal traffico di ragazzi che vanno a divertirsi. E dopo la partenza di Said è proprio su un terrazzo che Aman conosce Teodoro (Valerio Mastrandrea), recatosi lassù per tentare il suicidio. Avendogli inconsapevolmente salvato la vita, tra i due nasce un legame indissolubile.
Sullo sfondo di una Roma ormai divenuta multietnica ma di fatto ancora molto chiusa in un suo razzismo sia sociale che culturale il regista esordiente Carlo Noce affronta in questa sua opera prima il complesso tema dell’integrazione razziale nel nostro paese. E indagando sui disagi di quelle popolazioni arrivate qui da noi fuggite da situazioni di guerra tragiche e troppo spesso dimenticate come appunto è la Somalia, dove ancora oggi sanguinosi scontri fra clan fanno sì che puoi “essere legato dietro una macchina, trascinato per un giorno intero e lasciato in pasto ai cani”, in realtà si trova ad indagare e a raccontare un disagio che è anche nostro.
Cosi, se è vero che Aman abita al Corviale, zona di Roma fortemente degradata dove di fatto gli immigrati mal si integrano con il già precario tessuto sociale italiano costretto a vivere li, Teodoro, ex pugile dal passato oscuro, vive nella sua vecchia casa di piazza Vittorio, ormai completamente circondato da cinesi, indiani, neri, cioè da tutti quegli immigrati che hanno stabilito lì anche le loro attività commerciali. Come dire, entrambi i personaggi sono stranieri in terra d’altri. E se è vero che la proprietà della casa e la proprietà del vecchio locale, divenuto ora per l’appunto un ristorante cinese, permettono a Teodoro una vita senza problemi economici, è Aman, che invece ha perso il lavoro e non ha fonte di sostentamento, ad avere sogni e speranze, perché non ha nulla da perdere e perché può sempre proseguire oltre il suo viaggio della disperazione, raggiungendo suo cugino a Londra o magari suo fratello in Canada.
Certo, non sempre la narrazione è fluida e non tutti i personaggi sono delineati con efficacia: come la ragazza Sara di cui troppo casualmente si innamora Aman; o il vecchio istruttore di boxe di Teodoro, ridotto ormai su una sedia a rotelle e per la verità figura un pò macchiettistica nel suo paternalismo. D’altro canto va segnalata la scena della cena degli amici di Teodoro, che rivede dopo tre anni di lontananza voluta e che è resa assolutamente magistrale dai primi piani e dalle scelte dei volti decisamente pasoliniani. E comunque nel suo complesso il film funziona, perché scava nell’animo umano senza dare risposte, come è giusto che sia, perché il tema affrontato è complesso ed il regista non scade mai nella banalità e nel luogo comune, perché condividiamo il messaggio secondo cui gli uomini possono provenire dalle situazioni più disparate che li rendono apparentemente diversi, ma che hanno un nemico comune che può penetrare lentamente in ognuno di noi indipendentemente dalla nostra razza o lingua o religione. Quel nemico si chiama solitudine, e lo si sconfigge soltanto se tra gli uomini trionferà la solidarietà anziché il rifiuto del diverso.
VOTO: 3/5
Articolo del
16/11/2009 -
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