|
Era il 1990 quando Sergio Rubini esordì con il bel film La stazione, e quasi vent’anni dopo l’attore/regista pugliese sembra essere ripartito da lì. Perché anche in questo ultimo lavoro Ernesto Rossetti (Rubini) è un capostazione di un piccolo paesino della provincia di Bari, frustrato in quel ruolo ed in quel luogo perché si sente un pittore, nonostante non abbia potuto frequentare il liceo artistico. Cosi, sollecitato dalla bella Donna Valeria (Anna Falchi) e sfidando tutte le scettiche resistenze degli ambienti paesani che contano, Ernesto riesce ad organizzare una mostra di sue opere dedicata a Paul Cezanne, maestro ispiratore. Accanto a lui si muovono, non tutti con la stessa disinvoltura, gli altri protagonisti: sua moglie Franca (Valeria Golino), suo cognato Pinuccio (Riccardo Scamarcio), e soprattutto suo figlio, il piccolo ed irrequieto Gabriele. Ma la mostra si rivela un fallimento, non per lo scarso valore delle sue opere, ma per il pregiudizio con cui la critica, magistralmente rappresentata dall’avvocato e dal professore del paese, lo stronca con trenta righe dedicategli sul giornale locale. In realtà la narrazione del film è un flashback che nasce dalle ultime parole dette in punto di morte da Ernesto a suo figlio, e da quel momento il Gabriele adulto cerca nel proprio passato di ricostruire quella storia che gli aveva fatto avere un pessimo rapporto con il padre.
Non sempre la narrazione appare fluida, soprattutto nella prima parte. Non sempre le evocazioni cinematografiche (Fellini, Tornatore, Citti) reggono il confronto con le opere originali; e non sempre gli attori supportano la narrazione con le loro interpretazioni (decisamente più incisive quelle maschili, a cominciare ovviamente dal bravissimo Rubini e passando per Scamarcio fino all’ottimo Gabriele Giaquinto che interpreta Gabriele bambino). Il merito del film è invece quello di proporre diversi spunti di riflessione nel contesto ambientale in cui è costruito. Come ad esempio la denuncia di un sud narrato con un evidente sentimento di amore-odio, dove il pregiudizio e la chiusura mentale sono sempre causa di una arretratezza dalla quale non rimane alternativa se non la fuga, e che appare sinceramente sentita dal regista come un problema di immobilismo che andrebbe scosso dalle fondamenta. E per scuoterlo occorre avere tenacia, occorre credere fermamente nelle proprie vocazioni, anche laddove l’intero contesto sembra essere avverso; occorre non aver paura del giudizio affrettato degli altri, ed occorre trasmettere tutto questo ai propri figli. A rischio di avere un rapporto conflittuale, pieno di incomprensioni, di contrasti. Occorre scuotere quei luoghi comuni caratteristici di quel contesto: persone che parlano con i parenti morti, vedove in nero e gatti neri al cimitero, e soprattutto l’uomo nero che dà il titolo al film. Immagine paurosa, negativa e sempre presente nella mente di tutti i bambini. Ma mai, sembra voler dire il regista, fermarsi alle apparenze: occorre sempre guardare oltre per poter scoprire che anche l’uomo nero in realtà non è affatto cattivo….
Nel suo decimo film da regista Rubini sembra essere ispirato da buone idee di cinema d’autore e al contempo popolare, ma nonostante si muova in un contesto in cui è perfettamente a proprio agio in quanto luogo del suo passato e della sua memoria, la realizzazione delle sue idee si perde spesso in una narrazione poco efficace e il risultato non sempre è convincente. Fermo restando che sia come regista che come attore rimane uno dei migliori nel panorama italiano. Ultima annotazione: colonna sonora del maestro Piovani, che la trasferisce (quasi identica) da La vita è bella all’opera in questione…
VOTO: 2/5
Articolo del
10/12/2009 -
©2002 - 2025 Extra! Music Magazine - Tutti i diritti riservati
|