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Bilal è un ragazzo del Kurdistan iracheno che ha percorso 4000 km attraverso l’Europa per tentare di raggiungere la Gran Bretagna, dove da poco si è trasferita la sua ragazza con la famiglia. Giunto a Calais, nel nord della Francia, al giovane iracheno mancano poche miglia di mare per ricongiungersi con la sua amata e forse per coronare il sogno di diventare un calciatore del Manchester United. Per attraversare quelle miglia il ragazzo prova dapprima, con altri clandestini, a nascondersi su uno dei tanti camion che giornalmente attraversano La Manica, senza riuscire nell’intento. Quindi pensa che l’unica soluzione per raggiungere le coste inglesi sia quella di attraversare lo stretto a nuoto. Inizia cosi a prendere lezioni e ad allenarsi con l’istruttore Simon, al quale svela il suo obiettivo. Simon, dapprima interdetto, cerca di dissuaderlo dal tentativo; poi pian piano, venuto a conoscenza del dramma che si nasconde dietro la vita e la storia di quel ragazzo, lo prende talmente a cuore da instaurare con lui un vero rapporto tra padre e figlio. Il tutto all’interno di un contesto che, per lo stesso Simon, diventa ogni giorno più ostile: dalla sua ex-moglie, che lo mette in guardia sul fatto che in Francia ospitare clandestini è reato, al suo vicino di casa, che per questo lo denuncia alla polizia.
Diciamolo subito: il film è pugno allo stomaco, di quelli che ti lasciano senza fiato per qualche minuto. Perché è un film drammaticamente bello, che affronta un tema, forse il tema, drammaticamente più scottante dei nostri giorni: quello dell’immigrazione clandestina. E lo fa senza mettere in contrasto tra loro i buoni e i cattivi: qui i protagonisti sono gente comune, quella gente che si trova quotidianamente ad affrontare il problema dei clandestini perché ne vive la vicinanza fisica e ne incrocia quotidianamente i destini. Quella gente che riesce ad essere solidale e fare del volontariato o quella gente che è spaventata dal diverso, e si chiude dentro se stessa per paura che quei diversi possano minare le loro certezze, i loro equilibri. Quella stessa gente che sullo zerbino della porta di casa ha scritto “Welcome” ma che non sa accogliere. Quella gente che non va nei salotti televisivi a strillare senza conoscere, perché è li, nella realtà, accanto a quei drammi e a quella disperazione. Quella stessa gente che sente che in altri momenti della storia sarebbe toccato a loro guardare l’orizzonte del mare e sperare di attraversarlo per riuscire ad avere una vita migliore.
Con il supporto di una sceneggiatura secca, essenziale, ed una recitazione perfetta da parte dei protagonisti, a cominciare dall’ottimo Firat Ayverdi (Bilal) fino al superlativo Vincent Lindon (Simon) il film è stato in Francia campione di incassi. Viene da chiedersi come mai l’Italia, che pure è la prima frontiera per tutta quella parte di disperazione che proviene dal nord-Africa, e che pure è stata culla cinematografica del neo-realismo, non abbia voluto ancora seriamente affrontare il tema in questione almeno per aprire un serio dibattito sull’argomento, come è successo in Francia per questo film. Forse perché ormai in Italia i seri dibattiti sono divenuti impossibili, e si preferisce continuare a seminare paura ed odio per il diverso perché quella è la scorciatoia per un facile consenso populista. Che urla il problema senza affrontarlo né tantomeno risolverlo. Quindi, nonostante il successo in Francia e al festival di Berlino, sono certo che in Italia, purtroppo, il film passerà inosservato. Sia perché andrà a scontrarsi con i vari cinepanettoni già belli e impacchettati per Natale, sia perché qui da noi si vuol far finta di niente, e continuare a non voler capire un fenomeno che molto presto busserà alle nostre porte di casa.
Siamo dunque a fine anno, e come sempre è tempo di bilanci: volete il film più bello dell’anno? Welcome, senza dubbio. Un capolavoro che andrebbe proiettato nelle scuole. Perciò, mio consiglio personale, fatevi un bel regalo di Natale: andatelo a vedere e portateci i vostri figli.
VOTO: 5/5
Articolo del
21/12/2009 -
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