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Qual è il trauma di Ruth Weinstein, ebrea nata a Berlino e portata bambina da una zia a New York dopo la fine della guerra mondiale? Quali paure sono scatenate in lei, quasi sessant’anni dopo, dalla morte del marito? E perché ora si oppone al matrimonio di sua figlia con un non ebreo? Le domande che Margarethe von Trotta pone all’inizio di ‘Rosenstrasse’ sono, a ben vedere, l’altra faccia del trauma piantato al centro dell’Europa che si chiama Germania. L’indicibilità di quanto accaduto nei confronti degli ebrei (e degli zingari, i dissidenti, gli omosessuali, i testimoni di Geova, gli handicappati …) è un marchio impresso nelle vite dei sopravvissuti, e d’altra parte ha reso impossibile un rapporto sano con il passato per i tedeschi, schiacciati da un senso di colpa collettivo. Le due facce del trauma vengono presentate in questo film, forse per la prima volta, da una prospettiva unitaria, da un punto di vista che non è la contrapposizione fra ‘ebrei’ e ‘tedeschi’, ma è la ricostruzione di un’unità che le leggi naziste avevano diabolicamente separato. Per questo la ricerca a ritroso nel tempo che Hannah, figlia di Ruth, intraprende lasciando New York per Berlino ha molti significati: Hannah è americana, ma è anche ebrea, e tedesca da parte di madre; e parla tedesco, perché sua madre ha sempre parlato con lei nella lingua che è “l’unica cosa che mi è rimasta di mia madre”. Nella sua ricerca a ritroso, alla ricerca di chi sia sua madre, Hannah scopre una storia minore all’interno della tragica Storia del Terzo Reich: quella della Rosenstrasse, strada nel centro di Berlino dove alcune donne rimasero durante l’inverno del 1943 per settimane davanti all’edificio nel quale erano prigionieri i loro mariti destinati ai campi di sterminio. Mariti ebrei, sposate a donne ‘ariane’ che avevano rifiutato di divorziare, nonostante che rompere il vincolo del matrimonio avrebbe garantito loro il ritorno alla dignità sociale. Quella della ‘strada delle rose’ è una storia vera e poco raccontata: il suo lieto fine (la liberazione dei prigionieri per motivi che il film non spiega, e che non sono chiari nemmeno agli storici) era poco significativo per il filone classico dei film sull’Olocausto; la sua esiguità (qualche decina di vite salvate, a fronte di milioni di morti) la rendeva insufficiente per una lettura diversa della storia. Ma Margarethe von Trotta non vuole rileggere la storia; più semplicemente tira un filo e lo segue fino alla fine, avendo la pazienza di non prendere le scorciatoie, pur legittime, del ‘giusto-sbagliato’. Come le donne della Rosenstrasse, pazienti nell’attesa e nella lotta, con gli occhi fissi alle finestre dove avrebbero potuto intravisto i loro mariti. O più banalmente come Hannah, che arrivata al palazzo dove abita una di quelle ‘mogli coraggio’, scopre che non c’è l’ascensore e sale pazientemente le scale. Una piccola metafora, per suggerire la necessità di risalire passo passo, attraverso le piccole storie dentro alla Storia: un gesto banale, una piccola fatica, sono l’inizio dell’uscita dal buio, dall’orrore del passato che ancora ci avvelena. Il nuovo matrimonio misto, celebrato con rito ebraico in una New York multietnica, con Hannah e sua madre Ruth finalmente felici assieme, diventa allora il simbolo della possibilità ritrovata di conciliare passato, presente e futuro, la memoria di ciò che è stato con l’andare avanti; perfino l’essere ebreo e l’essere tedesco, un impossibile che grazie al coraggio delle mogli della Rosenstrasse trova il modo di essere di nuovo possibile.
Articolo del
30/09/2003 -
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