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Los Angeles, 1962: sullo sfondo del dramma collettivo americano (missili nucleari sovietici predisposti a Cuba e pronti a scatenare la terza guerra mondiale), George Falconer (l’ottimo Colin Firth), professore di letteratura inglese all’università, viene lentamente divorato dal dolore per il suo dramma personale: la morte del compagno Jim, amato per sedici anni e deceduto otto mesi prima in un incidente stradale a Denver. Il vuoto lasciato dal compagno è insostenibile per George, che perciò un giorno, quell’unico giorno raccontato nel film, decide di togliersi la vita. Così, con cura maniacale, George predispone oggetti, prepara il vestito e la cravatta con i quali vorrà essere vestito da morto, scrive lettere. E proprio in quel giorno forse si accorge che la vita prova a trattenerlo: con Charly, sua amica di sempre e da sempre innamorata di lui, nonostante la sua omosessualità; e con Kenny, un suo studente disponibile ad ascoltarlo, ad incontrarlo al di fuori dai ruoli che li distanziano e che prova ad entrare in quella solitudine in cui George si è rifugiato dopo la morte del compagno.
Tratto dall’omonimo romanzo di Christopher Isherwood, il regista Tom Ford, stilista di Gucci e Yves Saint Laurent (e si vede) lo racconta con un’attenzione quasi eccessiva al particolare, tanto che alcune fasi del racconto sembrano spot pubblicitari, ove il colore, lo spazio, l’oggetto messo davanti alla macchina da presa appaiono così perfetti da restituire immagini spesso patinate. Ma la storia è talmente bella e toccante che al regista lo si può anche perdonare anche questo eccesso stilistico. Perché in quella storia ci sono tutte le grandi tematiche dell’universo: la morte, che viene descritta come unico futuro possibile alla vita e che è sempre svincolata da ogni volontà umana di predisporne la venuta. La vita, alla quale siamo legati solo se proviamo sentimenti veri per qualcosa o qualcuno («Un mondo senza sentimenti non è il mondo in cui voglio vivere», pronuncia George). Il presente, il futuro, l’amore (omosessuale e non), la bellezza, la giovinezza; e poi il lutto, la solitudine, la paura (memorabile la lezione di George ai suoi studenti su questo tema, in cui spiega come da sempre l’uomo ha paura delle minoranze nel momento in cui queste diventano visibili e vengono percepite come un pericolo per la maggioranza). Cosi George impersonifica non più un dramma personale, ma la frontiera di un cambiamento che l’America e, di lì a poco, il mondo intero, avrebbero affrontato da quegli Anni Sessanta in poi. Quella frontiera che era un baratro, dove il grido (silenzioso) di dolore e di solitudine di George, oltre a essere il disperato tentativo di ricongiungimento nella morte con il suo compagno perduto, sembrava ammonire le generazioni future a stare in guardia da quei pericoli che già lui aveva avvertito. E questo chiaro messaggio intra-generazionale è dimostrato da piccoli, ma colti, particolari letterari del film: in un flashback in cui si descrive uno dei tanti bei momenti del rapporto che fu tra i due amanti, George, più grande e maturo, legge La metamorfosi di Kafka, mentre Jim, molto più giovane, legge Colazione da Tiffany, di Capote, scritto e pubblicato proprio in quegli anni. Come dire, essere sempre dentro al presente senza mai perdere il contatto con la storia e con la sua memoria. E soprattutto, sempre durante una lezione di George all’auniversità, egli cita più volte lo scrittore Aldous Huxley, autore di un grandissimo romanzo Il mondo nuovo, ricordandone una delle sue massime più efficaci: «L’esperienza non è ciò che succede ad un uomo, ma è ciò che un uomo fa con ciò che gli succede».
Davanti a quel baratro il mondo avrebbe potuto scegliere varie strade: oggi, mezzo secolo dopo, non possiamo certo sostenere di aver sempre imboccato quella giusta.
VOTO: 3/5
Articolo del
19/01/2010 -
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