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Mancava solo lui, il licantropo, alla galleria dei classici mostri hollywoodiani che negli ultimi anni sono stati soggetti a resurrezione: si ricorderanno il Dracula di Francis Ford Coppola, cinefilo e sontuoso, il Frankenstein di Kenneth Branagh, tronfio e narcisistico, e La Mummia di Stephen Sommers, infantile e fracassona. Con il Wolfman di Joe Johnston (ex tecnico degli effetti speciali votatosi alla regia già da vent’anni) il cerchio si chiude, ed è tempo di bilanci.
Cosa è cambiato dai gloriosi tempi degli horror di Bela Lugosi e Boris Karloff? Basta guardare Wolfman per scoprirlo, e ripensare al classico originale del 1941. Tra tutte quelle sopracitate, forse la pellicola di Johnston è quella che si è maggiormente preoccupata (fin quasi all’ossessione) di omaggiare il film predecessore con riferimenti diretti ai personaggi e alla trama. Il principale e più vistoso cambiamento, il più apprezzabile, è quello di spostare l’azione alla fine dell’Ottocento, cinquant’anni indietro rispetto al prototipo.
Nella nuova trama Lawrence Talbot (Benicio del Toro, granitico come Charles Bronson) è un attore shakespeariano di successo a New York, che torna al suo paesino d’origine in Inghilterra, per fare luce sulla morte del fratello (ucciso da una misteriosa belva) su accorata richiesta della fidanzata di quest’ultimo; ma dovrà fare i conti con il suo doloroso passato, con il misterioso e distaccato padre, e con la feroce belva che imperversa nelle sue brughiere natie…
Nonostante i piacevoli omaggi all’originale, è subito evidente l’enorme punto debole di Wolfman: non sono tanto le inconcepibili scene d’azione, i massacri operati dal licantropo (spesso visivamente gratuiti), gli inseguimenti dell’uomo lupo sui tetti di Londra (!), o gli inutili spaventi messi qua e là dal regista tanto per ricordarsi che dopotutto si tratta di un horror in pectore… No, è la totale mancanza di qualsiasi senso del mistero e di atmosfera del soprannaturale, di cui la Hollywood in bianco e nero ne sapeva qualcosa.
Evidentemente non basta una cupa brughiera inglese a fare mistero: qui tutti i personaggi sembrano essere perfettamente coscienti non solo di che cos’è un uomo lupo, ma delle sue caratteristiche, delle sue origini, e dei suoi punti deboli; l’arrivo di un ispettore di Scotland Yard da Londra, che conosce già l’identità umana del licantropo e ha già pronte in tasca le pallottole d’argento è letteralmente disarmante…
L’orrore spiattellato sulle pupille, anziché l’orrore suggerito, questo sembrerebbe volere un pubblico contemporaneo che, già perfettamente edotto sulle caratteristiche di un licantropo, vorrebbe venire subito al sodo, cioè agli artigli e ai massacri. Eppure questo contraddice apertamente l’intento del remake, il cui presunto rispetto dell’originale e il desiderio di azzerare la saga di questo mostro per i nuovi spettatori sembra tuttavia dare troppe cose per scontate.
E pensare che l’ebreo-tedesco Curt Siodmak, autore dello script originario, aveva inteso il dramma della licantropia come quello dell’emarginazione e della persecuzione del suo popolo da parte dei nazisti. Dov’è la compassione per l’uomo lupo oggi? Altri tempi…
VOTO: 2/5
Articolo del
27/02/2010 -
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