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Quando, dopo aver scontato ventisette anni di carcere, nel febbraio del 1990 Nelson Mandela venne scarcerato su ordine dell’allora presidente De Clerk, nel Sudafrica si era di fatto consolidata la fine dell’apartheid, quell’odioso regime che aveva tenuto gli indigeni neri ai margini della società, con diritti umani non equiparabili a quelli dei bianchi (afrikaner) ed in condizioni economiche, umane, sociali e politiche assolutamente vergognose. Il cammino per una completa riconciliazione tra le varie etnie del grande paese sudafricano era ancora lungo ed irto di difficoltà. Ma Mandela lo percorse con decisione: ed il suo impegno politico fu dapprima premiato con il nobel per la pace, insieme a De Clerk, nel 1993, e poi con la vittoria alle elezioni presidenziali, ove sconfisse proprio l’ex presidente uscente. Madiba (come lo chiamavano i neri nella lingua xhosa), tra le varie importanti intuizioni politiche che ebbe per portare a termine con successo quel percorso politico di integrazione, capì immediatamente che non poteva in nessun modo rinunciare agli afrikaaner, i quali erano ancora la classe sociale che deteneva il reale potere economico del paese. Così evitò accuratamente la strada, che pure la sua comunità nera in qualche modo istintivamente suggeriva, della vendetta. E scelse invece la strada della conciliazione; in tutti i settori, compreso quello dello sport. Cosi, essendo nel 1995 stato assegnato al Sudafrica il mondiale di rugby come paese ospitante, Madiba capisce che la squadra degli Springboks , fino a quel momento rappresentativa solo degli afrikaaner e dunque odiata dalla comunità nera sudafricana, e composta esclusivamente da giocatori bianchi ed un solo nero, poteva essere il giusto veicolo per quella riconciliazione tra bianchi e neri che attraverso quell’evento avrebbe dato una risonanza in tutto il mondo. Così comincia ad essere il motivatore di quella squadra, convocandone il capitano Francois Pienaar nel suo palazzo presidenziale spiegando lui quanto sarebbe importante, non solo per lo sport, una vittoria che tutti però ritenevano impossibile; e trasformò di fatto i giocatori di quella squadra in veicoli sociali, mandandoli ad insegnare il rugby nelle poverissime bidonville dei neri.
La storia diede ragione a Mandela, e lui vinse quella scommessa che neanche i bookmaker avrebbero quotato. Perché quel mondiale lo vinsero loro, gli Springboks. E dunque lo vinse il Sudafrica, che vide intorno a quell’evento un ritrovato senso di comunità nazionale.
La storia di Mandela è anche questa: un grandissimo presidente, che indossava (come fece Pertini in Spagna) la maglia della sua nazionale sudafricana durante la cerimonia di apertura di quel mondiale. E che rispettava gli avversari, in campo e fuori dal campo, come si conviene ad un vero leader e ad un vero sportivo. E, come spesso accade, il legame tra lo sport e la politica è spesso molto forte e molto simbolico (nel 1987 Ruud Gullit, militante nel Milan, vinse il Pallone d’Oro e lo dedicò a Mandela, allora in carcere). La storia di Mandela è una bellissima storia, e la si potrebbe raccontare in tanti modi e scegliere tante sfumature diverse. Quella raccontata nel film è quella scelta dal grande Morgan Freeman, che ha conosciuto il vero Mandela ed ha poi deciso di affidare il racconto di quella storia ad un altro grande della macchina da presa, Clint Eastwood, che da anni sforna un capolavoro dietro l’altro.
In questo caso, però, non ci sentiamo di dire che il risultato finale di questa bellissima storia sia propriamente un capolavoro. Forse perché stavolta la narrazione appare didascalica, forse perché la macchina da presa riprende ma non indaga, forse perché tutto (persino le township) è troppo bello e troppo perfetto per essere vero. Forse semplicemente perché l’occhio che riprende e racconta questa bellissima storia è un occhio americano, che come spesso accade ha il vantaggio e al tempo stesso il limite di saper ben posizionarsi per raccontare l’insieme ma non ha la capacità di far emergere i particolari che fanno quell’insieme. Forse perché, per questa strada, il “buono” di Sergio Leone non ha voluto neanche accennare a quella sofferenza nera che premeva dietro le porte del palazzo presidenziale sudafricano, anche con Mandela presidente, e che avrebbero dato molto più spessore al suo operato politico.
Ma a chi ci ha regalato film come Mystic River, Gran Torino, Gli spietati possiamo perdonare tutto. Anche il limite di averci raccontato uno dei protagonisti del ‘900 sotto il solo aspetto del calcolo politico in relazione allo sport. E dunque, a non voler essere pignoli, ci sentiamo di dire che, nonostante tutto, averceli registi così. E soprattutto presidenti così.
VOTO: 3,5/5
Articolo del
10/03/2010 -
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