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1954. Gli agenti federali Teddy Daniels e Chuck Aule vengono inviati a Shutter Island per investigare sull’enigmatica scomparsa nel nulla di una pericolosa madre infanticida dall’ospedale psichiatrico ove era in cura. L’agente Daniels nutre forti sospetti nelle metodologie adottade dal direttore della clinica e, complice un uragano che li blocca sull’isola, avrà modo di dimostrare la veridicità o meno delle sue ipotesi, tormentato però da incubi che rievocano traumi passati e ne minano la lucidità mentale.
Martin Scorsese, nella sua insigne filmografia, solo in un paio di occasioni si è confrontato col genere thriller, e prima d’oggi ne abbiamo avuto la prova col remake di Cape Fear, ottima reinterpretazione del classico con Robert Mitchum, con un De Niro d’annata. Lo stesso appagamento non si può ricavare dalla visione di Shutter Island, un confusionario guazzabuglio in cui gli sceneggiatori per la prima metà della pellicola si impegnano a creare un caos totale volto a disorientare lo spettatore, il quale dovrebbe essere volutamente fuorviato rispetto al reale epilogo della vicenda, ma che – se un minimo “navigato” in fatto di trame trite e ritrite come questa – riesce senza difficoltà ad intuire come realmente tutto si concluderà, chi è il vero colpevole e che scheletri nasconde nell’armadio. La sensazione è che il maestro italo-americano non sia troppo a suo agio con questo genere non suo, perché sì, il tocco registico è inattaccabile come lo sono i vari connotati tecnici – su tutti la fotografia di Robert Bridge Richardson (Assassini nati, Kill Bill, The Aviator) che illumina le scene oniriche come fosse uno dei primissimi film in Technicolor – ma le preplessità di una trama abusata, poco originale e mal sviluppata sono troppe per essere digerite. Fastidiosa la frequenza degli stonati incubi visionari dispensati a caso soprattutto nella prima parte di pellicola, totalmente inutili i riferimenti al nazismo per l’economia della vicenda, mal costruita la confusione che regna in gran parte dei (lunghi) 138 minuti di durata, facendola convergere in uno spiegone finale con l’ottimo Ben Kingsley che in quattro e quattr’otto ci butta lì la soluzione al caso, la quale però pare non bastare e si rende necessario (?) pure il flashback che mostra nel dettaglio cosa veramente accadde (non bastava solo dirlo, o solo mostrarlo?). “Ottimo” Kingsley, cosa che non si può purtroppo dire di Di Caprio, fuori parte nell’interpretare un disorientato detective che sembra non riuscire a convincere nemmeno sé stesso. Senza infamia e senza lode i comprimari Mark Ruffalo, Michelle Williams, Max Von Sydow.
Occasione sprecata – a soli tre anni dall’Oscar per The Departed, ripeto: a soli TRE anni dall’Oscar – e buttata in sala nel periodo peggiore, con Avatar e Alice a far da pescecani. Sia chiaro, non che il film meritasse sorte migliore.
VOTO: 2/5 per l’affetto
Articolo del
11/03/2010 -
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