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Alcuni, come il sottoscritto, pensano che il punk sia morto il 14 gennaio 1978 a San Francisco, quando Johnny Rotten annunciò lo scioglimento dei Sex Pistols. Sappiamo tutti che in un certo senso è vero (il punk, inteso come assenza di ogni regola, doveva finire in fretta ed essere irripetibile) e in molti altri no: “Punk’s not dead”, proclamarono nel 1981 gli scozzesi Exploited, tra i protagonisti di questo bel libro edito da Shake. E sicuramente hanno ragione loro: il punk è diventato un genere con regole ben precise, che attraverso una precisa evoluzione interna ha generato diversi sottogeneri continuando a scalare le classifiche e contemporaneamente ad esibire la patente di genere anti-sistema ancor oggi.
Ian Glasper si occupa proprio del momento in cui il punk sembrava morto e invece – come araba fenice – rinacque dalle sue stesse ceneri, nei cinque anni in cui l’attenzione principale era invece concentrata sul post-punk, da noi più noto come new wave. Glasper ci propone la storia di quel movimento, ma dir la verità il suo libro avrebbe dovuto essere sottotitolato “geografia del punk 1980 – 1984”. Non solo perché limita il campo di analisi alla Gran Bretagna (son già 480 pagine, quante ne volevate? 2000?), ma perché dedica ogni capitolo a una regione di essa. Cito dall’indice: il Sud-ovest, le Midlands, il Nordovest, il Nordest, il Nord e le East Midlands, l’Est e il Sudest. Londra, il Sud, il Galles, Irlanda del Nord, Scozia. C’è da leccarsi i baffi, anche per i non appassionati di punk. Perché dalle tante microstorie della novantina di bands qui intervistate emerge un grandioso affresco del clima che diede vita all’hardcore punk. Certo, lo schema di queste microbiografie è lo stesso di ogni agiografia rock che si rispetti: antefatto, origini, difficoltà, ascesa, nuove difficoltà, culmine, caduta (ed eventuale resurrezione). Ma non annoia mai. Anzi: agevola il confronto tra tante storie così simili e così diverse. L’essenza della seconda ondata punk è colta da Glasper in poche righe: ”Fu il grido di guerra della gioventù annoiata di ogni parte del Paese, raccolto e suonato ovunque”. Appunto: in ogni sperduto angolo della Gran Bretagna. Emergono altri dati: come i bistrattati (dagli autoproclamati puristi) Sex Pistols furono la miccia per il 95% di queste band (seguono i Clash, ovviamente, ma a distanza; poi, laggiù, potete vedere i Damned), ad esempio. O come la maggior parte dei punk la pensasse della scena anarcopunk, incentrata intorno ai Crass e volutamente esclusa dal volume proprio perché cosa altra: “Smash Hits (una rivista tradizionale per ragazzine)”, racconta Kevin Nixon degli Anti Pasti, “aveva persino una pagina intera con i nostri testi e una nostra foto! Il punk stava diventando una moda da teenager... che in fondo non era male perché lo rendeva accessibile a un sacco di altri ragazzi. Dopotutto, i Clash avevano cambiato il loro stile musicale e coperto altri generi, che in qualche modo li avevano allontanati dal loro messaggio iniziale. Saremmo diventati come loro oppure finiti come i Crass, per esempio, che urlavano e uralavano ma alla fine non raggiungevano nessuno al di fuori delle loro comuni hippy? Qualcuno mi dica cosa è meglio!”. L’hardcore punk incendiò il Regno Unito. Poi, come era arrivato, finì, sgonfiandosi all’improvviso, esattamente come accadde per il post-punk. Altrettanto curiosamente, leggendo il libro si ha la sensazione che il testimone dell’hardcore punk fu assunto motu proprio da una band che di punk non ha nulla: gli Smiths. Tra i titoli delle canzoni di queste band troverete qualche futuro verso di Morrissey. E tra questi punk della seconda onda, qualcuno afferma di aver cominciato a seguire la band mancuniana, a un certo punto.
Ricco di aneddoti gustosi, il libro è consigliatissimo: la mole è proporzionale a interesse e divertimento. Peccato per la traduzione di Marzio Bertotti dei Declino, non sempre all’altezza: una pagina 22 simile, per esempio, ce la si poteva risparmiare.
Articolo del
13/05/2010 -
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