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Quali sono gli ingredienti base per scrivere una biografia musicale che non sia unicamente rivolta alla più o meno ristretta cerchia di fans di un artista (leggi: maniaci ossessivi alla ricerca di aneddoti di scarso peso per tutti meno che per loro), ma che possa dirci qualcosa di profondo sull’Arte e sui valori universali di cui può essere portatrice? In primo luogo la musica di cui si tratta deve aver toccato i cuori della gente. Se poi è stata anche innovativa e magari rivoluzionaria, tanto meglio. Quindi, non meno importante, è indispensabile che ci sia il “personaggio”: ovvero, che la vita di cui si narra sia stata sfaccettata, complessa, drammatica, simbolica e archetipica. Inutile dire che la vita di Marvin Gaye, se vista in rapporto a questi (di per sé, freddi) elementi, rasenta la perfezione. Non è un caso che il New York Times abbia definito questo Divided Soul (per usare il titolo originale) “la migliore biografia rock di tutti i tempi”. Magari non lo è, ma ci va vicino.
Sullo status di Gaye cantante e musicista ci sono pochi dubbi: fu, Marvin, uno degli astri più splendenti della Motown anni ’60, e negli anni ’70 pose le basi (insieme a Curtis Mayfield, Isaac Hayes e Stevie Wonder) per la definizione di un nuovo vocabolario del soul, genere che grazie alle sue intuizioni divenne più sofisticato e maturo, anche con riguardo alle tematiche affrontate nei testi, con inediti riferimenti alla politica, all’ecologia e ai rapporti tra i sessi (quando non al sesso tout court). Ma ciò che più affascina è il legame strettissimo tra l’uomo e l’artista. E’ scoprire come e quanto le vicende biografiche di Gaye si riverberarono fin dal principio nella sua opera: il rapporto edipico con la madre e i feroci contrasti con il padre; l’amore/odio verso le due mogli (la prima delle quali, Anna Gordy sorella di Berry boss della Motown, aveva 17 anni più di lui, mentre con la seconda Janis iniziò una relazione quando questa era ancora minorenne); l’ambizione costante alla purezza spirituale, contraddetta da uno stile di vita corrotto e sessuomane (e talora – si rivela – sessuofobo); i sensi di colpa per aver tradito se stesso, o meglio la visione idealizzata che Marvin aveva della sua missione terrena. Marvin Gaye “l’uomo” era un cumulo di contraddizioni: questo l’assunto, dimostrato via via nel corso del libro, da David Ritz, giornalista che con Gaye alla fine degli anni Settanta strinse una stretta amicizia, interrotta poi bruscamente quando Gaye (che con il denaro ebbe sempre un pessimo rapporto) non volle riconoscergli i diritti per i contributi dati nella creazione della celebre Sexual Healing. La storia di Gaye, almeno per come la racconta Ritz, è quella di un uomo/bambino che non si riebbe mai degli abusi subiti da piccolo (da qui la sua lancinante invocazione su What’s Going On: “Save The Children!”), e che reclamò lungamente l’affetto o quantomeno il rispetto del padre, ma ahilui sempre invano. E’ una storia di tracolli familiari (i due matrimoni falliti) e di rovine personali (la disastrosa tossicodipendenza da cocaina, poi alla base della morte) ma anche di irripetibili trionfi artistici: tra questi, Ritz mette in particolare evidenza la fase che va da What’s Going On (1971) in poi, soffermandosi troppo poco (a mio parere) sugli anni della Motown, in cui pure Marvin realizzò singoli/capolavoro quali Stubborn Kind Of Fella, Baby Don’t You Do It, Ain’t No Mountain High Enough e, last but not least, Heard It Through The Grapevine, rimasti impressi nei cuori e nelle menti di ogni appassionato di musica che si rispetti. E’ anche ovvio, peraltro, che il “fuoco” di Ritz sia soprattutto sugli anni ‘70/primi ’80, perché fu quello il periodo in cui lui e Gaye si conobbero e si frequentarono. Se What’s Going On e Let’s Get It On sono considerate – come da ortodossia – due pietre miliari, Ritz fa un’interessante opera di rivalutazione dei poco apprezzati (al momento dell’uscita) Here My Dear (1978) e In Our Lifetime (1981), gli ultimi due LP incisi da Gaye per la Motown. Stranamente, invece, dell’ultimo Dream Of A Lifetime (1982), a cui pure collaborò, Ritz dice tutto il male possibile. Ma è nella narrazione del declino e della caduta di Gaye che Ritz scrive le pagine più vivide di questo Un’anima divisa in due, laddove racconta la fuga/esilio dell’artista in Europa, prima a Londra e poi a Ostenda, e quindi il ritorno a casa, a Los Angeles, in preda a paranoie da cocaina, braccato dal fisco e dalle due mogli, e costretto a convivere nella stessa casa con il detestato padre alcolizzato: Marvin Senior, che dopo l’ennesimo litigio con il figlio, lo uccise a colpi di pistola la mattina del 1° aprile 1984. Un omicidio che – secondo la teoria di Ritz – in realtà fu praticamente un suicidio, data la china autodistruttiva imboccata da Marvin che in quei giorni fu più volte visto danzare da amici e conoscenti sulla soglia del baratro. Insomma, Marvin provocò volutamente l’instabile genitore, implica Ritz, sapendo benissimo quali sarebbero state le irreparabili conseguenze.
Una vicenda altamente drammatica, quindi, ma allo stesso tempo trionfale, perché, come afferma l’Autore, Gaye “ebbe il coraggio raro di riversare il dolore di una vita travagliata nella sua arte e, come risultato, la sua arte ne risultò ampliata e arricchita. Le sue creazioni, come preghiere, erano cariche di voglia di amore, non l’amore di sé, ma un amore molto più saggio, più grande, un amore che trascende l’ego e riporta i nostri cuori alle fonti stesse dell’arte”. Bravo Ritz per una biografia di rara efficacia e complimenti all’editore Arcana che finalmente l’ha resa disponibile anche in Italia (con in più un’utile appendice discografica aggiornata al 2010 del traduttore Alessandro Besselva Averame).
Articolo del
18/05/2010 -
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