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A volte dei libri di spiccato interesse passano inosservati. Perché? Perché l’argomento non è di quelli che possono interessare il grande pubblico (nozione che spesso peraltro si accompagna a quella di bassa qualità artistica, come mi diceva un’artista qualche tempo fa) e perché di conseguenza a pubblicarli sono case editrici tanto volenterose e appassionate quanto, ahiloro e ahinoi, piccole. Come Il Margine di Trento, che l’anno scorso ha sfornato questo interessantissimo saggio-ricerca di Brunetto Salvarani e Odoardo Semellini, già autori tre anni fa per gli stessi tipi dell’enciclopedia gucciniania Di questa cosa che chiami vita, dedicato a uno degli album più misconosciuti, ma anche di assoluto culto, leggendario a modo suo proprio per la sua difficile reperibilità, dei primi anni ’70 italiani: Terra in bocca dei Giganti.
Due parole su chi erano i Giganti: milanesi, tra i complessi italiani dell’era beat i meno beat, pur venendo fuori da un background rock di tutto rispetto, dato che i suoi componenti, prima ancora della formazione del gruppo, avevano animato le serate rock’n’roll della loro Milano e poi erano finiti ad accompagnare Guidone, uno del Clan celentaniano, che, si sa, proprio dal r’n’r italico traeva origine. Ma quando formano i Giganti, gli interessi dei quattro meneghini sono già altrove: il blues, lo spiritual, il gospel, il dixieland. Tanto che, appunto, della valanga di gruppi beat sono il meno beat. Un po’, se volete, ma molto se volete, i Kinks italiani, se ci si riferisce alla band dei fratelli Davies nel suo periodo di fascinazione per il vaudeville. Con le loro facce da bravi ragazzi, bohemiens più che beat (con quelle barbe e cappellini da studenti universitari o pittori novecenteschi), hanno successo, fanno scandalo con testi di protesta (Proposta, Tema, Una ragazza in due) che nel clima pre-68 potevano sembrare troppo arditi e già nel ’68 suonavano parrocchiali. L’ondata hippie e alcune censure radiofoniche e televisive (Io e il presidente) li travolgono e li fanno sbandare. Poi, con l’arrivo del progressive, la decisione di riunirsi, dovuta anche all’incontro con Piero De Rossi, strana figura di cantautore maudit a metà tra Piero Ciampi (per la passione alcolica) e Fabrizio De André (per la passione per i francesi Brassens e Brel). Proprio De André aveva regalato alla musica italiana tre tra i primi concept album della sua storia: Senza orario né bandiera, scritto per i New Trolls, Tutti morimmo a stento e La buona novella. De Rossi è in fissa con la mafia, argomento allora super-tabù, declassato a folklore locale, nonostante la formazione della Cupola dati al 1957, le collusioni con la politica già abbondino, i traffici internazionali fioriscano e sia cominciato da qualche anno l’innesto al Nord. In fissa tanto da farci un viaggio di documentazione in Sicilia, il cui primo frutto è la ballata Lungo e disteso. Per vie che non vi sto a raccontare, giunge all’orecchio dei riformati Giganti, che decidono di partire da lì per un elaborare un concept album in stile progressive. Il disco si fa, nella più assoluta segretezza, ma poi, una volta pubblicato, viene trasmesso da Per voi giovani, trasmissione rock di Radio Rai (l’unica radio esistente in Italia all’epoca), per una sola settimana. La casa discografica, la Ri-fi, ne stampa solo 3000 copie (all’epoca, una cifra ridicola). Nessuna promozione, disco nascosto tra gli scaffali dei pochi negozi che ne ricevono una copia, più o meno una sola intervista.
La tesi degli appassionati autori è quella dell’intenzionale boicottaggio e del mancato sostegno a causa dell’argomento tabù, suffragata dalla testimonianza di Franco Fabbri degli Stormy Six, che documenta l’attività della Commissione di Ascolto della Rai. Ma attenuata da altre testimonianze come quelle di Claudio Rocchi e Franco Zanetti, che evidenziano il fatto che musicalmente il disco all’epoca già non colpiva così tanto. Il Margine allega al libro proprio il cd: effettivamente, nel 1971, suonava già datato. Due o tre anni prima avrebbe fatto gridare al miracolo, probabilmente, ma in quegli anni il rock si evolveva a velocità supersoniche. I testi, in particolare, sono troppo didascalici, figli della Linea Rossa di Ivan Della Mea e Giovanna Marini, o del Fabrizio De André più antico (e già il genovese volava altrove, infatti): in sostanza, inadatti al pubblico rock. Rimane un disco interessante, però, niente affatto brutto: e il merito del libro sta nell’averne ricostruito con passione e precisione la vicenda. Bravi davvero.
Articolo del
14/06/2010 -
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