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Confesso che quando ho cominciato a leggere La donna giusta di Sándor Márai ero scettico. Intanto perché è un romanzo di 440 pagine, e fino ad oggi ero convinto che, tranne qualche rara eccezione, solo i grandi autori russi fossero in grado di scrivere romanzi cosi lunghi e al contempo di altissimo livello. In secondo luogo perché pensavo che questo autore, ungherese di nascita, avesse compiuto il suo capolavoro letterario con il romanzo Le braci, pubblicato da Adelphi qualche anno fa e che fece conoscere finalmente Márai anche nel nostro paese. Sbagliavo sotto entrambi i profili. La lunghezza del romanzo in questione è pura arte letteraria, dalla prima all’ultima pagina; è spessore di linguaggio, è magica penna che entra dentro i personaggi, li scarnifica fin nei loro pensieri più intimi, li consegna al lettore denudati di ogni barriera psicologica, e quello che il lettore si ritrova è uno specchio in cui, chiunque noi siamo, ci viene riflessa almeno una parte di noi stessi che non possiamo far finta di non riconoscere. E dunque, al pari, se non superiore per la vastità dell’opera e dunque per gli orizzonti più ampi in cui si muove, anche dopo aver letto Le braci ci possiamo accingere a leggere quest’altro capolavoro senza timore di rimanere delusi.
La forma scelta da Márai in questo romanzo è quella del monologo: i primi 2 componevano l’opera originaria, uscita in Ungheria nel 1941; un terzo monologo fu scritto per l’edizione uscita in Germania nel 1949 ed infine l’epilogo, scritto nel 1980, che rende definitiva l’opera cosi come la possiamo leggere oggi. Come tutte le grandi opere letterarie, il romanzo ha diversi livelli di interpretazione: lo spunto narrativo potrebbe sembrare quello del classico triangolo amoroso, con il primo monologo in cui l’io narrante è Ilonka, moglie del borghese Peter, innamorata del marito e disposta a tutto per rianimare la fiamma della passione che vede spenta nell’amore di lui. Il secondo monologo è affidato a Peter, uomo colto e raffinato, appartenente per discendenza alla borghesia ungherese, amante dell’arte senza avere però il piglio artistico di creare nulla, che si sente “prigioniero” della sua classe, dei suoi schemi, delle sue abitudini. Nel terzo monologo la protagonista è Judit, serva domestica di Peter e della quale questo si innamora,lasciando la moglie Ilonka e ogni suo bene materiale alla domestica. In questi primi 3 monologhi, sullo sfondo, si muove un quarto personaggio, che forse è addirittura più importante degli altri: Lazar, lo scrittore, amico di infanzia di Peter e rappresentante di quella cultura che sembra pian piano smarrirsi nel corso degli anni, fino a mercificarsi del tutto nel quarto ed ultimo monologo, affidato ad un batterista emigrato in America dopo essere stato amante della serva Judit.
Il periodo storico raccontato da Márai abbraccia dagli anni 20 agli anni 80 (con l’epilogo del batterista) del secolo scorso, e questo gli consente di mettere sullo sfondo della vita narrata dai protagonisti i 2 opposti totalitarismi del 900 (dapprima l’occupazione nazista e poi quella sovietica) , e la sua grandezza di autore si rivela nel fatto che, pur narrando i personaggi gli stessi episodi ma visti dai loro diversi punti di vista, sposta l’asse temporale del racconto pian piano verso i nostri giorni, quasi senza che il lettore se ne accorga. E sposta inoltre il piano narrativo del racconto da una vicenda estremamente intima, caratterizzata dalle sofferenze interiori dei 3 personaggi, ai mali maggiori del secolo scorso; come la lotta di classe, come la guerra, come la già citata cultura, che viene svuotata sempre più del significato delle parole. La grandezza del racconto è nel mettere a confronto, senza falsi idealismi, 2 realtà contrapposte che lo stesso Márai ha vissuto in prima persona: quell’occupazione sovietica che ha soppresso fin da subito qualsiasi dissenso, cercando di comprare la collaborazione dei cittadini ungheresi obbligandoli a tenere sotto controllo i loro amici di sempre che manifestassero atteggiamenti non consoni al potere, costringendo di fatto all’esilio forzato tutti coloro che, Marai compreso, non si sono piegati a questa logica. E l’opposta realtà capitalista che lo scrittore trovò in America, dove in un supermercato “puoi comprare di tutto, ma nessuno ti vende la felicità”. E’ comunque impossibile sintetizzare tutti gli spunti di riflessione che pone il romanzo: si può provare a sintetizzare un messaggio che appare chiaro, e cioè che non esiste mai un solo punto di vista, ma è sempre necessario porsi dalla parte dell’altro per capire che ogni “assoluto” che vogliamo blindare nella nostra mente per comodità verrebbe facilmente sgretolato da chi ha altri occhi, altra sensibilità, altre esperienze. Non esiste la donna giusta o l’uomo giusto, "esistono soltanto le persone, e in ognuna c´é un pizzico di quella giusta, ma in nessuna c´é tutto quello che ci aspettiamo e speriamo."
Doverosa annotazione di cronaca: Márai mori suicida nel 1989 a San Diego, California. Si narra che prima di uccidersi telefonò per chiamare una ambulanza, e all’operatore che rispose disse: “C’è un cadavere da portar via...” Si narra; e se cosi fosse, di certo quell’operatore non poteva sapere che sarebbe stato l’’ultima persona ad aver udito dal vivo la voce di uno dei più grandi scrittori del 900.
Articolo del
15/06/2010 -
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