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Sette lettere scritte dall’imprenditore Balram al primo ministro cinese che dovrà a breve visitare l’India: è attraverso quelle sette lettere che Araving Adiga ci racconta il suo paese visto dal basso, con lo sguardo di un servo che proviene dalle tenebre (cosi in india chiamano i villaggi poveri dell’interno, al cospetto della luce con cui vengono indicate le grandi metropoli).
E’ uno sguardo lucido, che descrive un paese immenso pieno di contraddizioni immense, dove accanto agli slum con le fogne a cielo aperto emergono alberghi lussuosissimi e centri commerciali moderni, dove se sei povero quasi sempre non hai neanche un nome e la tua vita talmente non ha valore che puoi essere investito ed ucciso per strada che quasi certamente nessuno denuncerà la tua scomparsa. Un paese che ha visto in breve tempo arrivare fiumi di denaro e grandi investimenti americani, e grandi aziende della new economy sorgere dal nulla e cambiare le abitudini dei tanti lavoratori che devono rispondere di notte dai call center indiani ai clienti americani a causa del fuso orario. Un paese dove non hai possibilità di emergere o di tentare una scalata sociale, se provieni dalle caste basse, a meno che non si sceglie la strada della corruzione e del delitto, come sceglie di fare il protagonista Balram. Giunto a New Delhi dal piccolo villaggio di Laxmangarh, dopo qualche tempo il giovane Balram, della casta degli Halway (pasticceri) riesce a farsi assumere come secondo autista da Mr Ashok, figlio di uno dei 4 uomini più potenti del suo villaggio, che a Delhi faceva affari con il carbone. La vita per Balram è dura, con umiliazioni continue e stipendio da mandare interamente alla sua famiglia rimasta al villaggio; e sa che non ha scampo, si sente come uno dei tanti poveri senza futuro in quel paese dove il futuro è solo per pochi. Si sente come “i galli ammassati nella stia. Sentono l’odore del sangue, vedono le interiora dei loro fratelli sparse intorno. Sanno di essere i prossimi, ma non si ribellano, non cercano di uscire dalla stia”. Ma lui vuole tentare, perché si sente una tigre bianca, deve uscire dalla stia e ribellarsi al suo destino, alla sua condizione sociale, al suo padrone. E a quel punto Balram ha già appreso dal suo padrone tutto ciò che gli occorre per proseguire da solo una volta che...
Diciamo subito che il racconto non è perfetto: anzi si fatica all’inizio a entrare appieno in quella pur affascinante ed immensa galassia indiana descritta con scrupolo quasi giornalistico. Però Adiga ha indubbiamente il merito di aver costruito un racconto capace di conquistare il lettore pagina dopo pagina, e le vicende del Balram servo e tassista sono descritte con linguaggio semplice ma efficace, e sembrano portarci davvero negli slum di Delhi, sembrano farci respirare l’aria inquinata delle sue strade, sembra farci ascoltare da voce viva i racconti dei tassisti amici di Balram e delle loro prostitute ucraine. Insomma Adiga ha il merito di descrivere la sua India senza pietismo ma con un senso di denuncia forte di tutti quegli aspetti che impediscono ad un paese grande di diventare un grande paese: la corruzione, l’immobilità sociale, lo scarso valore della vita umana (tra i poveri), il forte senso di ingiustizia (tra i poveri), le disumane condizioni di vita (per i poveri).
Tutte cose che già sappiamo, forse. Ma che fa bene a ricordarci, perché nel nostro mondo sempre più globalizzato ed interconnesso dobbiamo capire che il destino dei tanti Balram indiani dipende anche, e soprattutto, da noi.
Articolo del
21/07/2010 -
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