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Libro meritorio già solo per essere il primo dedicato all’argomento dei festival pop italiani nei primi anni ’70, questo di Matteo Guarnaccia, uno che in quegli anni c’era, dato che ha, lui milanese, iniziato la sua vicenda artistica sulle pagine di una delle riviste off dell’epoca, la romana “Fallo!”. Oggi, che è attivo nel campo dell’arte, della moda, del design, della scrittura, del giornalismo, della curatela artistica e della musica (sua la copertina di Treno magico dei Timoria, ad esempio), decide di guardarsi indietro e di non affidare all’oblio e a sparse indicazioni su Wikipedia la memoria di una stagione così importante come quella in oggetto.
Già, perché i festival pop all’inizio degli anni 70 in Italia furono decine. E per spiegare che cosa s’intende con l’espressione “festival pop” riferita a quel contesto temporale, Guarnaccia pensa bene di chiarirci le origini del fenomeno: gli Stati Uniti degli anni 60, in cui si mischiarono le caratteristiche dei raduni rock’n’roll della fine del decennio precedente (scoperta delle propria fisicità e sessualità, separazione generazionale), dei festival folk & jazz (impegno sociale e civile, nessuna distanza tra artisti e pubblico) e degli Acid Tests (esplorazione di una Nuova Frontiera interiore e tribale con musica e droga come veicoli principali). I festival pop furono quindi qualcosa di molto diverso da quello che oggi siamo abituati a intendere con questo nome,ovvero degli eventi strettamente musicali e mediatici: furono il sogno, ingenuo, ingenuissimo, della generazione hippie, di poter costruire una realtà sociale ed esistenziale neoprimitiva e comunista (in senso tribale e non marxista), separandosi generazionalmente e territorialmente dal resto della società. Pratica di cui ben presto l’industria musicale capì la sfruttabilità commerciale, dapprima magari anche con tutte le più innocenti intenzioni del mondo (il Monterey Pop Festival del 1967), poi degenerando in pura impresa commerciale (in pratica il festival che conosciamo noi, con anche tutto i suoi disagi pratici) all’epoca del terzo Festival di Wight, in Inghilterra, nel 1970 (quello della sciagurata ultima esibizione di Jimi Hendrix). In mezzo, Woodstock, la cui perfetta armonia coniugata a uno sfondamento collettivo e generalizzato diede l’illusione del trionfo hippie, e Altamont, che in USA chiarì definitivamente che quello del pop festival come zona temporaneamente liberata era un sogno e niente più. L’arrivo più tardo in Europa del fenomeno, soprattutto in quella continentale e ancor più in Italia, generò la nuova illusione di poter imparare dagli errori del passato e costruire quello che gli altri non erano riusciti a fare. Errore. In Italia era in agguato un nemico della nuova società hippie ancor più pericoloso dell’industria musicale: il marxismo rivoluzionario. Difatti, leggendo la cronaca dei tanti (non tutti, sarebbe stato impossibile) festival pop italiani che Guarnaccia ricostruisce, ci si accorge che le cose cominciarono a degenerare decisamente in coincidenza dell’entrata decisa di organizzazioni come Lotta Continua, Avanguardia Operaia e – ultima, ma letale - Autonomia Operaia. L’Altamont italiana fu il parco Lambro 1976, sesto festival pop organizzato dalla rivista semiufficiale del movimento hippie italiano, “Re Nudo”. Il disastro fu talmente grande da cancellare il ricordo degli anni precedenti. E d’altro canto, altri tempi incombevano: gli anni di piombo più bui, l’individualismo di punk e new wave. Ma leggendo il libro di Guarnaccia ci si rende conto di un’altra componente ostile al sogno pop italiano: la maggioranza silenziosa di un paese arretrato socialmente e culturalmente: valga come esempio il Pop Festival di Catania (1974), con artisti e pubblico che si devono difendere dalle violenze dei locali (una ragazza stuprata, tra l’altro. E tutti si considerarono fortunati che non ci fosse scappato il morto). Questo dà lo spunto a una doppia riflessione. Su come anche questa vicenda ribadisca che l’eterno problema dell’Italia sia la frattura, la distanza siderale, tra un’èlite illuminata e globalizzata e una massa sterminata arretrata e iperconservatrice, timorosa di ogni novità. E, cosa che Guarnaccia non prende in considerazione, il fatto che alla musica dei festival pop italiani, musica che bene o male era sempre il centro del festival, mancasse qualcosa: si trattava infatti di musica magari bellissima, ma spesso troppo elitaria e concettuale (leggi: il prog; e notare che, a parte la PFM, i gruppi del genere che sapevano scrivere canzoni, cioè essere pop, erano raramente – come il Banco – o mai – come le Orme e i New Trolls – invitati ai festival) per i partecipanti (che di fronte al programma di Villa Pamphili 1974, giocano a palla); e quando non era tale, era però incapace di produrre anthem e inni capaci di aggregare e attirare. Prima del fatidico capolinea del 76, se ne registra solo uno, La tua prima luna (1970) di Claudio Rocchi (brano splendido, ma peraltro una minor hit, e poco adatto al ruolo di anthem per sua natura: tra David Crosby e Nick Drake, per darvi un’idea); nel 76 arrivò Musica ribelle di Eugenio Finardi, ma troppo tardi. Una prova? Le stesse parole di Guarnaccia, un duro e puro, che, quando ci riporta che al Parco Lambro 1975 “il pubblico è conformista e pieno di pregiudizi, accetta la musica di consumo (Venditti) e rifiuta rumorosamente i nobili tentativi di sperimentazione (Battiato)”, non si rende forse conto che in realtà ci sta parlando di questo. E non si ricorda che i festival pop USA erano pieni di canzoni facili da cantare, memorizzare, e che creavano un’identità. In Italia c’era uno solo in grado di farlo, nella prima metà dei 70, ma sfortunatamente non ne voleva sapere di esibirsi: Battisti.
Il libro non si esaurisce nella carta stampata: lo corredano un’interessante Dvd, con immagini d’epoca e testimonianze di chi c’era, e un cd più documentaristico. Nonostante certe prese di posizione non condivisibili, resta un volume imprescindibile per tracciare la storia del rock italiano.
Articolo del
30/10/2010 -
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