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Come sicuramente saprete già, Thomas Vinterberg, noto per essere il regista di Festen, e per essere rimasto solo quello per tutti i suoi film successivi, mezzi pacchi, flop o delusioni che fossero, ha risollevato carriera e prestigio quest’anno alla Berlinale 2010 con Submarino, film tratto da questo romanzo di Jonas T. Bengtsson. Voglio dire: questo è già un bel biglietto da visita per il romanzo dello scrittore danese, perché, se è vero che basta un bravo regista per trarre un bel film da un brutto romanzo, le cose si fanno molto più difficili (e questo va a onore di Vinterberg) quando il romanzo di partenza è strepitoso. Come questo.
Submarino, il cui titolo rimanda al “metodo di tortura in cui la testa della persona viene tenuta sott’acqua fino al limite del soffocamento”, come avverte una nota a piè di pagina prima dell’inizio del libro, è un romanzo che non ha nulla di seducente. O di piacevole. Lo stile è aspro, all’inizio respingente. Non fa nulla per portare il lettore “dentro di sé”, anzi sembra volerlo respingere fin da subito: riferimenti a fatti e persone che incontreremo ben dentro il romanzo, che è un doppio, lungo flashback, in realtà, rispetto alla situazione iniziale. Riferimenti fatti come se il lettore sapesse già benissimo di che si parla. Spiazzante è dir poco. “Straniamento” è il termine tecnico, per chi ne sa. Hai la sensazione fin da subito di entrare in un territorio che non è tuo, in una vita che non ti appartiene e che non comprendi, e che per di più fa di tutto per respingerti, per tenerti lontano dai suoi segreti. Chi resiste all’impatto con il disorientante Prologo, non trova la vita più facile, per quanto fatti e personaggi si chiariscano poco a poco e, anzi, il lettore possa dimenticare perfino il suddetto Prologo immergendosi nella vicenda (ché, come dirò, cattura, eccome, se cattura): perché le porzioni di mondo e di vita della Danimarca felix qui rappresentati sono tra le cose più dure che abbia mai letto. Difficili da digerire, difficili da accettare. Eppure, stranamente, perversamente, riescono ad attrarre il lettore nel proprio asse gravitazionale, a farlo sporgere imprudentemente per curiosare dentro la storia fino a caderci dentro, nell’abisso, nel buco nero rappresentato dalle vite sbagliate di Nick, culturista già finito in galera per aver ridotto male, ma proprio male un malcapitato, e di suo fratello minore, eroinomane senza nome padre di un Martin, bambino in età da asilo. Quello di Bengtsson non è sensazionalismo facile. È autentica bravura nel far vivere al lettore l’angoscia di queste vite perdute, che cercano disperatamente una parvenza di normalità: Nick, il duro, devastato per essere stato lasciato dalla yugoslava Ana, si prende cura del fratello di lei – barbone borderline ossessionato dalle crudeltà cui ha assistito durante la guerra civile che ha insanguinato e separato la sua patria; il fratello di lui, tossicomane, cerca di dare al figlio Martin una vita normale. Ecco, al centro delle loro vite ci sono Ivan e Martin, cui sono intitolate le due parti del romanzo, destinate a ricongiungersi nell’epilogo. E Ivan e Martin ci sono anche perché i due fratelli danesi nascondono un orribile segreto. Non voglio raccontarvi la trama: già vi ho detto troppo. Voglio solo dirvi che, dopo l’iniziale senso di repulsa ed esclusione insieme, il lettore finisce per essere in ansia per le sorti dei due protagonisti e delle persone ad esse collegate: la velocità con cui si legge il libro e il numero di pagine lette giorno per giorno aumento vertiginosamente man mano che ci si immerge nella storia, per poi decelerare verso la fine, centellinando le ultime pagine, timorosi che al padre di Martin accada qualcosa che spezzi il suo legame col figlio. Si tratta di un eroinomane spacciatore: eppure si finisce per tifare per lui, perché non crolli il mondo ovattato di immenso affetto in cui è riuscito – paradossalmente – a tenere Martin. E in più, sempre, quella stretta al cuore. Quella che ho ritrovato anche vedendo il trailer del film di Vinterberg, con tutto che le critiche dicano che non è così riuscito e che i personaggi siano diversi da come me li ero immaginati.
Grande libro, grande romanzo, grande scrittore. Non vi porterete questo libro sulla spiaggia. Non è un libro che vi concilierà il sonno. Per questo lo amerete.
Articolo del
04/11/2010 -
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