|
L’ho già scritto. Credevo di avere toccato il top del godimento critico-musicale dopo la lettura di Post-punk, per la serie di prospettive inedite sul periodo e il fenomeno musicale considerati nel volume che è il naturale precedente (ma anche la naturale conseguenza) di questo. E così ho fatto leggendo Hip-hop-rock. Errore. Aveva ragione Reynolds: il discorso di Post-Punk non era finito. Ce n’erano di aspetti ulteriori da chiarire.
Così il buon Simon (l’uomo che ha coniato il termine post-rock, peraltro: ma questa è un altra storia) ha riaperto gli archivi, controllato le interviste, scelto i passi delle 32 più interessanti, che spesso magari non sono quelle ai nomi più noti. Emergono, da questo mastodontico ma preziosissimo e sempre molto più che appassionante saggio, alcune caratteristiche comuni a tutto il Post Punk: ad esempio, il fatto che le radici musicali del fenomeno siano da ricercare in una commistione di influenze glam di Bowie e Roxy Music (e questo magari è abbastanza ovvio), dub e black music (questo anche, ma magari già un po’ meno) e krautrock (e questo è davvero sorprendente, dato che dal volume emerge come praticamente tutti i gruppi che diedero vita al movimento conoscevano bene i lavori di gruppi come Neu!, Kraftwerk, Tangerine Dream, Can e addirittura prendevano modellavano il loro modo di suonare su quello dei musicisti tedeschi, il che dovrebbe sdoganare definitivamente il rock tedesco anni ’70 nell’Olimpo del rock). In alcuni casi, come in quello degli Scritti Politti, c’era anche vicinanza, non solo musicale, ma anche umana, con band del prog più radicale, come gli Henry Cow. A ragion veduta, quindi, Reynolds nella bella auto-intervista finale (elaborazione delle tante interviste rilasciate in occasione dell’uscita di Post-Punk) può affermare che il post-punk in pratica rappresenta la rinascita del prog, commisto ad elementi di black music, fatta da musicisti che non sapevano suonare abbastanza professionalmente. Fatta quindi con attitudine punk. Il che cambia tutte le carte in tavola, facendo nascere una musica nuova. Ma non c’è solo questo: colpisce anche che la maggioranza dei musicisti coinvolti nel movimento fossero studenti di scuole d’arte. È uno dei tratti che accomuna il post-punk con la musica degli anni 60: il che, nelle intenzioni di Reynolds, è uno dei dettagli che puntellano l’affermazione che il post-punk, in quanto a creatività, non ha avuto nulla da invidiare alla grande stagione dei Sixties: in entrambe c’erano voglia di sperimentare e di creare qualcosa di mai sentito prima. Forse l’ultima grande stagione creativa “pura” del rock: da allora in poi, se ci si pensa, hanno dominato o il revivalismo (specializzatosi fino al clonaggio di stile: band che non copiano, ma suonano “come se fossero”) o la costruzione di nuovi generi tramite esclusivi incroci di generi del passato (pensate allo stesso fenomeno del sampling; o al grunge: che cos’è stato se non punk+hard rock+melodia pop?). La fine dello sguardo verso il cielo del Post-Punk, della sua incredibile fiducia di poter cambiare il mondo partendo dalla musica, ha segnato forse l’inizio della fine del rock come genere creativo. Tra i diversi tratti importanti, la contemporanea fioritura della migliore stagione del giornalismo inglese, quella scuola leggendaria che influenzava davvero i musicisti (Gavin Friday dei Virgin Prunes: “Oh, sì, certo che leggevamo Morley. Era tipo il vangelo. Seguivamo ogni sua parola”), giungendo a dar vita a scene e musiche che non esistevano, evocandone i caratteri come una concretizzazione dello Zeitgeist.
Libro ricchissimo, tanto di prospettive culturali che vanno al di là del semplice fatto musicale quanto di aneddoti, e di piacevolissima lettura. Consigliato a tutti: a chi già ne sa tante sul post-punk, come ai neofiti. Un’ottima strenna natalizia, direi. Non stavate cercando un’idea?
Articolo del
07/12/2010 -
©2002 - 2025 Extra! Music Magazine - Tutti i diritti riservati
|