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E così ci siamo. È arrivato il primo libro sui Baustelle. E non è un instant book inutile (e dannoso per le tasche degli acquirenti). D’altro canto, con un’editoria musicale italiana che investe solo su saggi riguardanti artisti di almeno 30 anni fa nella speranza che i vecchi fan non vivano nell’illusione di trovare tutto sul musicista del loro cuore su Internet (e no, non c’è comunque: rassegnatevi), col mercato discografico che ci ritroviamo e col tipo di pubblico dei Baustelle (non esattamente quello dei Jonas Brothers), sarebbe anche difficile. Ma c’è di più: questo saggio di Jachia e Pilla si propone da subito come uno dei libri da cui sarà necessario partire per ogni futura disamina critica della produzione baustelliana, anche se perfettibile, com’è nella natura delle cose di questo mondo.
Corretta, da sposare, la tesi di fondo, che parla di un misticismo laico dei Baustelle: partendo dalla constatazione, già in Leopardi e nel Qohelet (per tacer di Montale), dell’ “infinità vanità del tutto” e dell’assurdo “nulla” che sta alla base della nostra esistenza (posizione ovviamente atea, che sposo e condivido con tutto me stesso) giunge a trovare un motivo di vita nel condurla come se si stesse facendo un’opera d’arte. Ma più che allo sterile dandismo wildiano e dannunziano il misticismo baustelliano si connette all’origine baudelairiana del fenomeno, proponendo il dandy come un mistico di una Bellezza non elitaria, ma accessibile alla massa e tuttavia sottratta ai meccanismi del mero utile della società industriale. In poche parole: la bruttezza che domina questo mondo non è solo esteriore, è interiore, profonda, perché non pone l’Uomo a cardine di ogni valore, ma anzi lo relega a merce esso stesso, condannandolo a un reificazione che è abbrutimento del singolo e dei rapporti fra singoli. Ecco perché “ci salveremo solo disprezzando la realtà” (come affermato in I mistici dell’Occidente), ovvero non apprezzandola, negando cioè ad essa l’apprezzamento soprattutto nel senso etimologico del conferire ad essa un prezzo, ovvero un valore. “Non è impossibile pensare un altro mondo” in cui potere “amare come Dio / usarne le parole” (Andarsene così). È la figura del “modern chansonnier” (Il Musichiere 999) evocata nel primo album: un divo delle classifiche (i Baustelle non hanno mai voluto essere relegati nella nicchia dell’underground a tutti i costi), perennemente dandy, scomodo e trasgressivo perché non in sintonia con questo mondo (Gainsbourg), ma pieno di poesia (di bellezza, quindi) e attento al sociale (Brel e De André). Come ha chiarito a più riprese lo stesso Bianconi, quello che può fare un musicista per cambiare le cose è “avanguardia di massa, cioè sperimentazione anche estrema, ma alla portata di tutti. È il massimo che si possa fare in un sistema capitalistico. O fai la rivoluzione con mitra e bombe, oppure fai il tarlo all’interno di questo sistemaccio”. Come Battiato, altro nume tutelare.
La posizione dei Baustelle è diventata nel corso dei dischi sempre più quella di chi si separa criticamente da questo mondo, ne prende le distanze disgustato, ne addita le brutture, “scrive con lo spray sui muri che la catastrofe è inevitabile”, “vede la Fine”. E nel far ciò si trova ad usare sempre più un linguaggio di tipo religioso, pur restando su posizioni atee. Ecco perché il libro esce per i tipi di Àncora, edizioni cattoliche: ma si segnala per non forzare mai, dico mai, le posizioni di Bianconi. Ottima la ricerca delle fonti, che spaziano da Montale a Pasolini, da Conrad a Jacopone da Todi, da Francis Ford Coppola a Maurizio Cattelan. Si poteva dare qualcosa di più tenendo conto delle suggestioni musicali, che in una canzone sono citazione, allusione, suggestione anch’esse, parimenti significative al fine di (ri)creare od evocare nell’ascoltatore un mondo poetico e filosofico: ma questo è il limite consueto di chi viene dalla critica della canzone d’autore, colmabile in futuri studi. Unica vera pecca, la cantonata pazzesca presa dai due autori (se ne scusano sul sito di Àncora), che hanno creduto che un testo parodico di Ivano Rebustini, falsamente attribuito a Francesco Bianconi, fosse stato realmente scritto dal cantante toscano. Ma ci si ride sopra, via. Succede nelle migliori famiglie.
Articolo del
06/02/2011 -
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