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Nick Drake, si sa, è oggetto di uno dei più tenaci culti sotterranei della storia del rock. Questo ventiseienne timido che se ne va da questo mondo in una notte di novembre nel 1974 – sul piatto i concerti brandeburghesi di Bach -, forse per scelta, forse per errore nell’assunzione di farmaci antidepressivi, steso sul letto della sua cameretta nella casa dei suoi genitori a Tanworth-in-Arden, è il padre spirituale di tutto l’indie folk dagli anni 90 in poi. Autore di tre album ignoratissimi da pubblico e critica, complice la sua estrema introversione, peggiorata da un uso devastante delle droghe che andavano di moda allora (sì, come Syd), desideroso in sommo grado di fama e riconoscimento della propria arte, forse aveva la strada bloccata dal successo di Cat Stevens (di cui, semplificando all’eccesso, è la versione più intimista, per chi non lo conoscesse) o forse era semplicemente troppo avanti per i tempi, il che suona paradossale (ma vero) per un’artista che suonava la chitarra acustica, proveniva dal folk, adorava Pentangle e Fairport Convention e produsse il suo capolavoro assoluto, Pink Moon appunto, usando solo chitarra e voce, una voce che faceva fatica spiccicare le parole.
Amanda Petrusich, giornalista del New York Times, ha incontrato la musica di Drake nel 2001, ma ha fatto di essa, e in particolare di Pink Moon, la sua amica speciale, la sua compagna di viaggio quotidiana durante i trasferimenti a New York. Così ha pensato bene di scriverci questo libro, ricco di testimonianze di chi ha conosciuto Drake di persona, come il produttore Joe Boyd, e di chi lo ha conosciuto attraverso la sua musica, come Lou Barlow dei Dinosaur Jr.. Il volume scorre benissimo fino a pagina 85, ripercorrendo le tappe della vita di Drake, umane ed artistiche, sbalordendoci col racconto di come la sua stupefacente abilità chitarristica fosse all’epoca scambiata per approssimazione (ma chi recensiva i dischi? Pippo?), e giungendo in scioltezza a Pink Moon, fornendone una buona descrizione introduttiva. Così il lettore continua sfogliare il libro, si snocciola un altro po’ di testimonianze postume, e poi arriva con l’acquolina in bocca a pagina 85, dove si attende una megaanalisi del disco. E invece. Invece parte una diffusa analisi dello spot della Volkswagen Cabrio, mai visto in Europa, che nel 2000 ebbe il pregio di utilizzare la canzone che dà il nome al disco rilanciando la popolarità di Drake e facendo vendere più copie dell’album di quante se ne fossero mai vendute. Petrusich intervista tutti: autori dello spot, responsabili della casa di produzione, responsabili della Volkswagen. E lo fa per 39 pagine. Cristo.
Meno male che poi c’è il parere di Robyn Hitchcock. E che poi il traduttore del libro, Antonio Puglia inserisce una sua postilla sulla fortuna di Drake in Italia. Ma insomma, se io avessi a portata di mano Petrusich e una clava, saprei cosa fare. Giudizio finale? Un buon libro a metà. Che sul più bello parla d’altro. Coitus interruptus. Per guardare la tv. Oibò.
Articolo del
08/02/2011 -
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