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Si può leggere attraverso la storia della musica la storia di un Paese? Ovviamente sì. A volte anche al di là della semplice evoluzione dei costumi. È anche per questo che Rock’n’roll italian way è un libro interessante, oltre che ben fatto. Questo studio su “Propaganda americana e modernizzazione nell’Italia che cambia al ritmo del rock (1954-1964)” non presenta storie di fans o di proto-star italiche del r’n’r. Ma è ancor più interessante perché analizza le modalità della diffusione della musica che avrebbe cambiato il mondo e soprattutto le resistenze alla sua diffusione, diffondendosi sui perché e citando ampiamente documenti dell’epoca.
Orbene, il rock’n’roll fa il suo primo approdo in Italia nella base navale Usa di Napoli, attraverso le strutture di divertimento e ricreazione approntate per il personale della base e le iniziative per fraternizzazione con la comunità indigena, cioè italiana. La propaganda per l’amicizia tra Italia e Usa, tanto più importante in quanto il dopoguerra è l’epoca della guerra fredda e il nostro Paese, benché alleato degli States, vede la presenza del più forte Partito Comunista dell’Europa Occidentale, si fa anche attraverso lo stile di vita. Nascono così anche i primi locali rhythm’n’blues a Napoli e nel 1957 apre anche la prima stazione radio per il personale della base, tanto più utile in quanto le sette note della penisola sono ancora poco amiche del rock’n’roll. Data la necessità di sottrarre il Paese alla propaganda comunista, ci si potrebbe aspettare che i governi a guida democristiana abbiano visto di buon occhio la pubblicità data alo stile di vita americano, che ovviamente giungeva agli occhi e agli orecchi degli Italiani anche attraverso il cinema e i dischi, d’importazione o ristampati in Italia. E invece no. L’Italia si caratterizza per una peculiarità unica nel cosiddetto “mondo libero”: il monopolio statale di radio e tv, di regola appannaggio delle dittature. Inoltre, governo democristiano e opposizione comunista si trovano d’accordo nell’opporsi alla diffusione del nuovo genere musicale. Così la radio americana a Napoli chiude e riapre solo nel 1963, col programma Good Morning from Naples! (una misera mezz’ora tra le 7 e le 8 di mattina nei fine settimana), con diffusione solo locale. Lo sconcerto verso il rock’n’roll e le sue manifestazioni (interrazziali, sessuali, generazionali) accomuna tutto il mondo occidentale, Usa compresi, ma mentre nella maggioranza dei Paesi è materia di dibattito di sociologi e al massimo di crociati di fanatici religiosi e tutto sommato si diffonde abbastanza liberamente, in sole due nazioni “libere” si verifica nei suoi confronti un deciso ostracismo che, vista l’inarrestabilità del fenomeno, opta per una nazionalizzazione del nuovo genere musicale, che in pratica significa contaminazione con la tradizione locale al fine di ammorbidire la carica “eversiva” della nuova “moda”. Le nazioni sono il Messico e l’Italia. È qui che il libro di Merolla fa riflettere. Sul fatto che il nostro è un Paese tenuto alla periferia dell’Impero da cricche, conventicole, camarille, potentati occulte e logge più o meno segrete, con la forza del loro potere, perlomeno dall’epoca della Controriforma, da cui, forse non siamo mai usciti. E pure chi a questi poteri dovrebbe opporsi, se non altro per guadagnare esso stesso potere, finisce per essere complice di questa strategia. Ciò che accomuna poteri secolari e finte opposizioni è il controllo: delle nostre vite, dei nostri pensieri, del nostro modo di essere e di sentire. Quello stesso Pci che si opponeva al rock’n’roll e ai juke-box (ma lo sapevate che c’era una tassa apposta perché ce ne fossero pochi in giro?), si sarebbe opposto anche alla tv a colori, per dire. È sempre la stessa Italia, quella in cui oggi governi e opposizioni intercambiabili salvano i reciproci parlamentari dai processi richiesti dalla magistratura, costituendo una Casta di intoccabili diversa nel destino da noi volgari plebei.
Ovviamente il libro di Merolla non parla di queste cose: ma ci fa riflettere su esse. Su come il popolo italiano sia sempre stato tenuto nella condizione di minus habens appositamente. Anche per questo è un libro che val la pena acquistare e leggere. Anche solo per scoprire (ma ne aveva già parlato Michele Bovi) come i video musicali siano stati inventati proprio in Italia. Per vederli serviva una specie di video juke-box. Ovviamente tassatissimo. Adieu, sviluppo di professionalità e industrie. Cosa ci abbiano costruito in Usa sui video, lo vediamo in tv.
Articolo del
30/03/2011 -
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