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Dopo l’imprevisto e clamoroso successo di Studio illegale, “Duchesne” torna, svela il suo vero nome e cognome e ci dona un potente affresco del rampantismo berlusconiano. Il protagonista, l’avvocato Giuseppe Ilario Sobreroni, pieno di sé, uso a guardare al presente con l’ottimismo della volontà, arrogante e sprezzante nei confronti del prossimo (ma qualche delicatezza, a modo suo, ce l’ha, come quando decide di rimandare di un giorno il colloquio con un associato dello studio in cui lavora, per ché altrimenti gli darebbe la notizia del licenziamento il giorno del suo compleanno), due figli che non capisce, di cui una già pronta a 12 anni per la scalata veliniana e desnuda al successo nell’Italia di Silvio B., una moglie che non ascolta, un’amante di cui nemmeno si ricorda disseminata nel suo passato, gaffeur impenitente, il protagonista dicevo, è uno dei personaggi più irritanti e antipatici che siano mai stati concepiti (scelta non inusuale in letteratura, peraltro: già lo fece Svevo in Senilità, per dirne uno). Il lettore non riesce a identificarsi con lui, con il suo mondo di disvalori freddi e rapporti umani glaciali, ammantati, a volte, da un velo di cortesia professionale, ed è un bene: se ci si identificasse, saremmo proprio messi male. Fatto sta che il mondo di Sobreroni esiste e lotta accanto a noi, invisibile ai nostri occhi (e Antoine de Saint-Exupéry ci insegna che perciò costituisce l’essenza del nostro sistema di vita), tranne per qualche epifania sui pochi media non pennivendoli. Raccontarlo significa narrare l’alienazione e la mutazione antropologica indotte nel profondo dell’essere umano: non esiste più umanità, ma ruoli, funzioni e monetabilità; non più dialogo, ma monologo che presuppone il consenso; non più esperienza, ma produttività; non più sostanza, ma ipocrita apparenza. Come è sempre più evidente, come i soldi e la finanza hanno sostituito il prodotto reale (si fanno soldi sui soldi e sulla previsione di fare soldi), così il linguaggio si è svincolato dalla realtà, le parole significano il loro contrario e la rappresentazione ha sostituito l’essere. Bella novità, direte voi. Già, ma anche se La gente che sta bene in fondo non fa che mostrarci che anche i ricchi piangono, tuttavia non induce in noi nessuna compassione: e questo perché non ci fa vivere questo mondo dal di fuori, ancora una volta da spettatori che assistono a uno show, come accade tutti i santi giorni. Grazie anche all’artificio del racconto delle avventure del Sobreroni dalla sua viva voce, il lettore si trova in un salutare disagio in ogni pagina e ciò che lo spinge a leggere è il desiderio che l’avvocato milanese (cui ne capitano veramente di tutti i colori) alla fine perda.
Se quella che Balzac ritrasse nell’800 era la Comédie humaine, questa del 2011 è una farsa disumana che governa e distrugge le vite nostre e di chi conta. Eppure di questo mondo privo di emozioni profonde che non siano negative (paura e vendetta), il cantore migliore non sarebbe Balzac. Come Baccomo fa dire al suo protagonista, «una volta, se uno voleva una vita piena di emozioni, o si metteva a fare il navigatore, o il bandito, o il crociato. Ma quell’eredità dell’avventura, adesso, è in mano a noi, i liberi professionisti. Il conte di Montecristo, oggi, sarebbe presidente di Unicredit. Che venga allora un nuovo Dumas, venga a scrivere di noi, non ci mancano di certo galera e vendette». Da leggere assolutamente.
Articolo del
27/05/2011 -
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