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Umberto Lenzi è un pezzo di Storia del cinema italiano. Sì, di Storia con la “S” maiuscola, anche se si è sempre dedicato ai film di genere e mai al cinema d’autore, che di solito dà accesso a odi e tributi. Ma anche nei film di genere si possono firmare capolavori: Lenzi ha firmato Orgasmo (1969), Milano odia: la polizia non può sparare (1974), Incubo sulla città contaminata (1981), venerato da Tarantino, e ha inventato il personaggio del commissario Monnezza. Scusate se è poco.
Ritiratosi circa vent’anni fa dal cinema, il buon vecchio anarchico (parole sue) Lenzi si è da qualche anno reinventato scrittore di noir. Scalera di sangue è la quarta avventura dell’investigatore Bruno Astolfi, che si muove nell’ambiente del cinema dei telefoni bianchi: dopo Delitti a Cinecittà (2008), Terrore ad Harlem (2009) e Morte al Cinevillaggio, ambientato a Venezia nella città del cinema voluta dalla Repubblica di Salò, è ora la volta di un’avventura nella Roma del 1945, nell’estate successiva alla fine della guerra. Ancora una volta, Astolfi si muove nell’ambiente del cinema: la Scalera fu infatti la prima casa produttrice cinematografica italiana a trapiantare nel nostro Paese la mentalità imprenditoriale americana, fatta di film a getto continuo. Come la storia incrocia la lavorazione di Due lettere anonime, film effettivamente girato nel 1945 da Mario Camerini, intorno al cui entourage si compie una serie di efferati delitti, così Astolfi incrocia una serie di personaggi storicamente esistiti: lo stesso Camerini, che lo assume, lo sceneggiatore Ivo Perilli, la star Clara Calamai, i giovani scrittori Carlo Cassola e Vasco Pratolini, il giovane pittore Renato Guttuso, un Federico Fellini ancora aiuto regista di Rossellini sul set di Roma città aperta... L’avrete capito: il noir è per Lenzi (anche) un pretesto per descrivere un mondo che non c’è più e che in giovane età dovette affascinarlo alquanto. D’altronde, Lenzi è del 1931, e quindi all’epoca della storia narrata aveva 14 anni; inoltre il detective Astolfi è toscano come lui che vide la luce in quel di Massa Marittima, provincia di Grosseto... Scalera di sangue è un buon noir, che si fa leggere appassionatamente, spiazzando il lettore sull’identità del colpevole, svelata a circa metà racconto (sennò che noir sarebbe? La suspence sta nel vedere se il nostro eroe ce la farà...), ma è un noir vecchi tempi anche nella scrittura. Come si può intuire anche dalla grafica di copertina, che cita i Gialli Mondadori, non aspettatevi le finezze di stile cui ci hanno abituato le nuove generazioni di scrittori gialli. Nessuno scriverebbe mai di sé, nemmeno nel 1945, quando i modi dell’espressione erano considerevolmente differenti da quelli di oggi, parole come queste: “In preda a un comprensibile sconforto per essere rimasta priva di mezzi di sostentamento e dei preziosi ricordi di mia madre...”. È uno dei punti deboli del romanzo: buono come sceneggiatura, cade un po’ in credibilità come romanzo in punti simili. E finisce talvolta per dare alla minuziosa ricostruzione degli anni 40 della Capitale (colori, odori, sapori, suoni) un tono falso da sceneggiato Rai: ad esempio, non è molto credibile che negli anni 40 Astolfi indichi col termine “compagna” la sua ragazza, tanto più che non ci vive assieme; e che, trasgredendo disinvoltamente la morale dell’epoca (lei rimane incinta), abbia espressioni di riprovazione per il ripudio degli insegnamenti di Santa Romana Chiesa da parte di un personaggio.
Alla fine, però, poco male: il sapore sgradevolmente dolciastro di kitsch televisivo riesce a rimanere in secondo piano perché la storia funziona e la ricostruzione storica esercita un fascino non indifferente sul lettore. Un buon libro per il relax sulla spiaggia. Spiccata la componente visuale, immaginativa, com’è giusto che sia per un ex regista. Rimane però la sensazione che questa storia aspetti di essere tradotta in un media a lei più consono. La graphic novel?
Articolo del
18/07/2011 -
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