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Forse ha ragione l’autrice di questo splendido romanzo, che nel doverlo sintetizzare lo ha definito una storia d’amore, l’amore tra un contadino e la sua terra; tra una madre e i suoi figli; tra un uomo e una donna; tra amici. Questa sintesi però non ci autorizza a ridurre la grandezza del racconto a questa sola chiave di lettura, perché la storia che ci racconta Susan Abulhawa è un grido di dolore urlato con la frustrazione di un popolo, il suo popolo palestinese, che troppo spesso ha subito violenze e soprusi inenarrabili per le nostre coscienze morali e moraliste, e che difatti troppo spesso non ci sono state narrate per non turbare quei nostri schemi precostituiti dove per comodità tendiamo ad identificare i buoni come coloro che sono simili a noi (per colore della pelle, per religione, per appartenenza politica) e i cattivi come coloro che vediamo diversi da noi.
Ma la storia che ci racconta Susan Abulhawa è la Storia: la storia di un popolo, quello palestinese, sradicato dalla sua terra e, che ci piaccia o no, è la storia di un popolo, quello ebraico, che da oppresso in Europa si fa oppressore in Palestina, ed è quella storia che segna la nascita di uno stato e la fine di un altro. Ce la racconta attraverso le vicende di una famiglia palestinese durante un arco temporale di oltre 60 anni (dal 1948 al 2003), cacciato dal loro originario villaggio immerso tra gli ulivi di Ain Hod dapprima al campo profughi di Jenin, poi in quello di Sabra e Shatila in Libano. Eccoci, allora, ad una chiave di lettura che non possiamo e non dobbiamo ignorare: proviamo ad entrare, attraverso il racconto, peraltro pieno di poesia e dolcezza nonostante la crudeltà del contesto descritto, in un campo profughi palestinese. Proviamo ad immaginare di vivere in una prigione a cielo aperto, circondati da soldati con fucili puntati continuamente contro di noi, che di tanto in tanto entrano con i carri armati nelle case fatiscenti in cui ti lasciano sopravvivere e sparano uccidendo chiunque. Proviamo a immaginare donne sgozzate e con il ventre aperto dalle lame delle baionette che impediscono a nuove vite di nascere. Proviamo ad immaginare l’odore del fuoco, quello provocato dalle bombe, e proviamo a riconoscere in quell’odore la carne bruciata dei nostri parenti; proviamo ad immaginare corpi straziati per sempre dalle traiettorie impazzite delle pallottole.
Lo so, è dura per noi poter pensare ad uno scenario cosi apocalittico: anche perché i mass media evitano accuratamente di farci vedere queste immagini strazianti. Eppure uno dei grandi meriti di questo straordinario romanzo è quello di imporci la più banale delle riflessioni, e cioè che dobbiamo convincerci che esiste ed è reale soprattutto quello che non ci viene raccontato dai media, e non il contrario. Cosi, se partiamo da questa riflessione non possiamo non farci subito una prima domanda, stavolta non più tanto banale: ma dove eravamo noi occidentali quando accadevano i massacri raccontati nel libro? Eppure siamo sempre i primi ad andare nel mondo ad esportare democrazie... Ma per poterlo fare bene dovremmo prima imparare ad essere obiettivi, ad essere equidistanti da interessi economici e politici che manipolano il consenso e la verità. Avremmo dovuto sapere del massacro indegno compiuto dal macellaio Ariel Sharon, all’epoca (1982) ministro della difesa israeliano e poi promosso primo ministro, nel campo profughi libanese di Sabra e Chatila; invece i media, a quell’epoca, ci raccontavano molto più dettagliatamente della morte della principessa Grace.
Qualcuno ci ha provato, a raccontarci la storia non convenzionale. E nel romanzo sono giustamente ricordati, come il grande giornalista britannico Robert Fisk; ma purtroppo sono state voci fuori dal coro, inascoltate, a cui non è stata data la giusta cassa di risonanza. Oggi, tra queste voci, ne abbiamo una nuova, potentissima: quella di Susan Abulhawa, che con questo racconto ci inchioda li, di fronte a tutte quelle storie che non avremmo mai voluto ascoltare. E allora fatevi coraggio, non potete perdere questa occasione; e non abbiate paura dei giudizi che la scrittrice avrebbe potuto esprimere nei confronti dei persecutori della sua famiglia e del suo popolo. Nelle sue parole c’è dolore, ma non desiderio di vendetta; nei suoi ricordi c’è il senso di appartenenza al suo popolo, ma non discriminazione nei confronti degli israeliani; nel suo racconto c’è tanta morte e tanta distruzione, ma anche e soprattutto tanta speranza per un mondo di pace che il suo popolo ormai non conosce più.
Già, forse ha proprio ragione lei: questo è un romanzo d’amore, se per amore intendiamo qualcosa di cosi grande che include anche la Storia; e noi potremo dirci capaci di amare solo se la smettiamo di ignorare quella Storia, altrimenti saremo complici di ogni carro armato che spara su vittime innocenti, saremo i mandanti di ogni fucile che spara contro una mano di un bimbo che lancia una pietra. Saremo assassini, se vogliamo continuare a fingere di non esserlo già.
Articolo del
27/07/2011 -
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