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Esistono quattro tipi di giornalisti musicali. Gli scribacchini, critichini o pennivendoli che siano. Il tipo alla Simon Reynolds, capace di riunire in sintesi potenti attraverso prospettive critiche inusuali interi decenni, con tutte le loro spinte contraddittorie. Il tipo alla Lester Bangs, che sia o meno presente la fattanza, convinto che il rock debba essere popolare e critico dello star system, portavoce autoproclamato dei fans. E poi c’è Nick Kent. No, non il tipo alla Nick Kent. Proprio Nick Kent. Ovvero il giornalista musicale capace di vivere la vita delle star senza leccare nessuno.
Apathy For The Devil è la sua autobiografia, per quanto concerne gli anni Settanta. Il titolo viene da un commento di Ian Hunter, leader dei Mott The Hoople, alla scarsa incisività live degli Stones 1976, ma si adatta alla perfezione tanto alla vita di Kent nel decennio dell’ego, quanto al decennio stesso, che seppellì le utopie di altruismo Sixties per finire a sua volta seppellito dal synth-rock, che Kent non ama e definisce “roba che suonava come un branco di oche che scoreggiano nella galleria del vento”. Gusti a parte, la vita stessa di Kent sintetizza la parabola Seventies: irresistibile e rapidissima ascesa da studentello di provincia approdato a Londra a grande firma di NME e frequentatore abituale di Rolling Stones, Led Zeppelin e Iggy Pop e altrettanto irresistibile e rapidissima discesa a tossico senza speranza. Questo vortice di autodistruzione non impedisce però di sognare di vivere o aver vissuto una vita simile (tipo: “se questo è il prezzo da pagare, ci sto”), data la mole di aneddoti incredibili ed emozionanti che si possono leggere nel libro, unito ad acute notazioni critiche o a taglienti giudizi di costume very british. Immaginate di finire in overdose e venire salvati da Iggy Pop. E mentre siete in overdose, di impedire a Iggy Pop di esprimersi irriguardosamente nei confronti di Peter Grant, massiccio (ed è un eufemismo) manager dei Led Zeppelin, il che avrebbe significato morte certa ed istantanea. O di aver fatto parte della prima formazione dei Sex Pistols. Non male, vero? O di aver vissuto la vostra prima grande storia d’amore, finendo con il cuore a pezzi tra le braccia dell’eroina, con Chrissie Hynde futura leader dei Pretenders. Di andare a vedere David Bowie live a Detroit nel 1973 e di assistere all’ingresso nella sala di “una gang di motocicliste lesbiche” in sella alle loro Harley, mentre, “nel frattempo, i bagni erano pieni di gente che scopava o che ingurgitava pillole. L’intero edificio sembrava un epico film porno traslato in una spasmodica realtà”. In pratica il set del video di Relax dei Frankie Goes To Hollywood: ma dieci anni prima, e reale. Di essere stati lì quando Bangs condusse la sua memorabile intervista a Lou Reed a base di insulti reciproci. Di aver rischiato di morire per mano di Sid Vicious, e di averlo salvato successivamente. Ma di essere anche stati uno dei pochi ad aver apprezzato il genio di Nick Drake quando era in vita, e di essere stato quello che ha dato il via alla sua rivalutazione critica post-mortem. E quello che ha ricreato l’interesse attorno a Sid Barrett che fece scrivere ai Pink Floyd Wish You Were Here. E di aver fatto la stessa cosa per Brian Wilson, quando non se lo filava più nessuno.
Apathy For The Devil è un libro che è impossibile smettere di leggere, scritto da uno che definire “giornalista musicale”, l’avrete capito, è riduttivo. Un vero e proprio rock writer, che farà schizzare la vostra adrenalina oltre i livelli massimi consentiti. Senza chimica, eh. Da avere assolutamente.
Articolo del
11/09/2011 -
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