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“Il miglior album rock d’esordio”: così ai tempi fu definito Horses, di Patti Smith, 1975. Anzi, l’NME precisava: “Migliore del primo album dei Roxy, migliore del primo album dei Beatles e degli Stones, migliore degli album dei Doors, degli Who e di Hendrix e dei Velvet Underground”. D’altronde, anche Lester Bangs su Creem l’aveva paragonata a Charles Mingus, Miles Davis e al Dylan di Blonde On Blonde, ponendo così fin da subito Patti Smith nel gotha dell’aristocrazia rock. In effetti, Horses possiede una forza speciale che riuscì a proiettare quella che era un’artista conosciuta al massimo nella ristretta scena off newyorkese nell’alto delle classifiche di Billboard (il picco fu al n. 47), regalandole lo status di rockstar (confermato, dopo il flop di Radio Ethiopia, 112°, dalla scalata alle classifiche di Easter, 20°, e Wave, 10°).
Come nota acutamente Philip Shaw in quest’ottimo saggio (completato da una efficace trasposizione a fumetti dei testi del disco a opera di Valerio Pastore), con il suo debutto Smith ha creato “un genere completamente nuovo […], con l’accento posto sui sentimenti, invece che sulla tecnica, e sulla passione, invece che sulla raffinatezza”, a tal punto fondante che “l’estetica art brut di «Horses» la si ritrova nei lavori di numerosi musicisti, da Nick Cave a P.J. Harvey, da Kim Gordon a Kristin Hersh”. Pietra miliare a tutti gli effetti, dunque, che Shaw analizza minutamente, partendo dai dati biografici di Smith e passando per la loro trasfigurazione artistica e letteraria, non dimenticando di inquadrare il tutto nel contesto dell’epoca e di spiegare i brani del disco nella loro fusione di testo e musica che costituisce la peculiarità della forma canzone rispetto a quella poetica, come purtroppo in Italia troppo spesso i critici musicali si dimenticano di fare. Passaggi esistenziali ed artistici che portano Smith a identificare lo spirito dionisiaco del rock, incarnatosi nell’evoluzione del genere durante i Sixties, con il deragliamento di tutti i sensi predicato dal simbolista francese Arthur Rimbaud alla fine dell’Ottocento al fine di pervenire a nuove forme e livelli di conoscenza del mondo e di sé. Rimbaud, figura centrale nell’immaginario di Smith, come ben si sa, al punto da divenire contemporaneamente suo alter ego e suo fidanzato virtuale, in concorrenza con i reali Robert Mapplethorpe o Tom Verlaine (toh!), era stato anche l’ispirazione principe di Jim Morrison, la prima star che tentò di fondere rock e poesia. E proprio a lui, come a Jimi Hendrix, James Dean e Jean Genet, è dedicata gran parte del disco: ovvero al tentativo di far risorgere la commistione di ribellione, spirito dionisiaco e ricerca artistica che sembrava essere terminato con le Tre Morti Illustri del 1971 (Hendrix, Joplin e Morrison).
Come scrisse la stessa Smith in Jukebox Cruci-Fix (su Creem del 1975) “Hendrix e Morrison non hanno lasciato i loro corpi […] per lasciarsi ibernare in jukebox postumi”, ma per preparare l’avvento a “qualcosa di nuovo e di totalmente estatico”. Come Johnny Rotten/Lydon dei Sex Pistols e dei P.I.L., che creò il punk ascoltando krautrock e dub, anche Smith era una fricchettona in ritardo che, portando all’estremo alcune caratteristiche della musica del passato (occhio alla quantità di cover dei Sixties: Hey Joe di Hendrix, Gloria dei Them, Land Of A Thousand Dances di Wilson Pickett, My Generation degli Who, So You Want To Be A Rock’n’Roll Star dei Byrds) e considerando il pop come una nuova religione di cui le rockstar morte sono santi evangelizzatori e pionieri avanguardisti, aprì la strada a nuove prospettive del rock. Con ciò risolvendo anche le proprie dicotomie: esistenziale, che la vedeva lacerata tra la passione per l’arte trasmessale dal padre e l’oppressiva visione religiosa della madre Testimone di Geova; artistica, componendo la frattura tra cultura pop e “alta”; e sessuale, come mostra la fine analisi condotta da Shaw sui testi di Smith sulla base delle teorie psicanalitiche di Freud e Lacan.
In poche parole, un saggio critico di rara profondità e completezza e al tempo stesso accessibile ad ogni appassionato dell’opera di Smith. In una parola, imperdibile.
Articolo del
17/10/2011 -
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