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Non ebbe vita lunga il “rockabilly” – il suo momento di gloria si situa all’incirca tra la fine del 1954 e i primi del ’59 – e spesso la critica lo ha denigrato quale fase infantile nelle magnifiche sorti e progressive del più onnicomprensivo genere-ombrello denominato Rock and Roll. Troppo primordiale e istintivo, rozzo e giovanilista, si disse: prima, però, che l’insurrezione punk dei tardi anni Settanta sdoganasse nuovamente il genere (o sottogenere) e che giovani turchi quali Cramps e Stray Cats dessero il “la” a quello che rappresentò non solo un mero revival ma un consistente ritorno di interesse che sfociò nella nascita di una miriade di etichette consacrate a scovare e ristampare materiale d’epoca, molte delle quali tuttora attive. Da allora il culto del rockabilly, in linea di massima sotterraneo con qualche sporadico riaffioramento, è rimasto con noi e non se ne è più andato. E ora finalmente gli è stato dedicato un tomo che ne racconta “la storia vera”, come da sottotitolo. Lo ha vergato, con una passione che trasuda da ogni singola pagina, Max Décharné, che oltre a collaborare (tra le varie testate) per Mojo e The Guardian e a collezionare 7” originali degli anni Cinquanta, il rockabilly lo ha anche suonato con personaggi del calibro di Nikki Sudden e Baz Boorer (con i Polecats e poi, in seguito, collaboratore di un certo Morrissey) e con band quali Gallon Drunk e Flaming Stars.
Diciamo subito che A Rocket In My Pocket, disponibile oggi nella traduzione di Gianluca Testani, è un libro essenziale, nel quale Décharné sviscera tutto – ma proprio tutto – quel che vale la pena di conoscere sul rockabilly. Delimita innanzitutto il campo, spiegando che si tratta di una forma più minimale ed istintiva, e più tendente al Country che al Rhythm’n’Blues, del Rock and Roll (quindi più “bianca”), tanto è vero che per lungo tempo negli stati del Sud degli U.S.A. il termine “hillbilly” fu inteso come sinonimo di quella che poi divenne “country music” pura e semplice. Afferma poi come il Big Bang del rockabilly fu in fondo, poi, il medesimo del Rock and Roll, e va fatto coincidere con la pubblicazione, nel luglio 1954, del primo 45 giri per l’etichetta Sun di Memphis di Elvis Presley (nonché del chitarrista Scotty Moore e del bassista Bill Black), quello che recava That’s Alright Mama sul lato A e Blue Moon Of Kentucky sul lato B. E sì: proprio Elvis, che – sottolinea Décharné - prima (molto prima) di diventare una star di Hollywood, era conosciuto negli Stati del Sud come “The Hillbilly Hepcat”, proprio a testimoniare i suoi legami originari con gli ambienti del Country. Ovviamente Décharné si sofferma molto sulla Sun Records, l’etichetta di Memphis che dopo l’esplosione di Elvis incise i più importanti singoli di altri artisti all’epoca tutti definibili come rockabilly: personaggi rimasti nella Storia come Jerry Lee Lewis, Carl Perkins, Johnny Cash e Roy Orbison, ma anche gente ugualmente talentuosa sebbene più oscura come, per esempio, Billy Lee Riley. Tuttavia, aldilà delle grandi star – come anche Gene Vincent, Eddie Cochran e il Johnny Burnette Trio, che incisero per etichette major - le pagine più illuminanti del libro sono quelle in cui Décharné ridà lustro e visibilità ai tantissimi artisti che durante il periodo d’oro del rockabilly pubblicarono solo qualche singolo, anzi, talvolta un 45 giri soltanto. E’ il caso ad esempio di Jimmy Lloyd, l’interprete di I Got A Rocket In My Pocket, il brano che dà il titolo al libro. Di lui Décharné scrive: “Se pure fosse stato l’unico pezzo inciso in tutta la sua carriera, Jimmie avrebbe comunque il posto assicurato al fianco dei migliori”. E’ un’affermazione che l’autore ripete spesso in relazione ad altri nel corso del volume, che proprio per le tante citazioni di nomi oscuri e dimenticati (uno per tutti: il grande Charlie Feathers, oggetto di una bella e sentita rievocazione) assume un’importante valenza anche come prontuario per farsi largo nella sempre più intricata giungla di antologie rockabilly immesse sul mercato a partire dagli anni Settanta. Di grande interesse anche i capitoli dedicati al rockabilly dal vivo (nelle bettole del Sud degli U.S.A.), alla radio, alla Tv e al cinema. E non manca, ovviamente, una sezione dedicata al revival degli anni Ottanta, con gli ortodossi Stray Cats e Polecats e i più punkeggianti (psychobilly o punkabilly, per gli amanti delle definizioni) Cramps e Gallon Drunk.
Per Décharné, nonostante tutto (e le immani quantità d’acqua passata sotto i ponti) il rockabilly è ancora vivo e attuale. Fu il primo genere nato dal basso, dai kids per i kids, come in seguito il garage-punk degli anni Sessanta e il punk dei Settanta, ed è questa (oltre all’istintività, all’energia e alla velocità) una delle principali attrattive per i nuovi teenager che ancora oggi lo riscoprono ogni anno: per quelli, in particolare, alla ricerca di una musica che si discosti quanto possibile da suoni mainstream fin troppo levigati. Una musica che – Décharné non cessa mai di rimarcarlo – è frutto delle intuizioni di un ragazzo che in definitiva resta anche un grande Enigma: Elvis Presley. Com’è possibile che da solo, nel corso di una breve seduta d’incisione di poche ore, sia riuscito a inventare tutto questo? Lo stesso autore fa fatica a spiegarselo (e a spiegarcelo) e preferisce lasciare la parola a Scotty Moore, unico sopravvissuto di quella storica session del ’54: “Aveva un ritmo nella voce, aveva semplicemente una dote naturale. Poteva ascoltare una canzone, e sapeva già cosa fare con quella canzone. E nessun altro poteva farlo. Lo imitano ancora oggi, ma nessuno ci può riuscire”.
Articolo del
15/11/2011 -
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