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Anche la disastrata critica musicale italiana ha prodotto i suoi capolavori: Non sparate sul cantautore di Claudio Bernieri è uno di questi. Ben venga quindi questa ristampa da parte di Vololibero che rende di nuovo disponibile un testo da lunghissimo tempo introvabile: saggio-inchiesta prodotto da un giornalista d’assalto dell’area di Autonomia un paio d’anni dopo il fattaccio della contestazione a De Gregori al Palalido di Milano, testo citatissimo ma che quasi nessuno ha letto, è il frutto di una serie di interviste condotte a tradimento (senza prendere appunti e col registratore nascosto) ai maggiori cantautori e personaggi tanto del mainstream che dell’area alternativa e politicizzata dell’epoca.
Quasi presago della fine di un’era, Bernieri produce un mosaico praticamente completo di un mondo che stava per finire e dei prodromi di quello che stava per arrivare. Epocale e citatissima l’intervista a Mogol che, a confronto con tanti proclami confusi sull’essere alternativi al sistema, giganteggia per consapevolezza (auto)critica del ruolo dell’autore di canzoni. È in essa che si trova la famosissima dichiarazione che chiarisce uno dei punti centrali della poetica mogoliana, base della sua rivalutazione critica degli ultimi anni: Il nostro caro angelo non sarebbe altro che “un discorso contro la Chiesa fatto in mezzo milione di copie”. Ergo, il sistema non si critica a suon di slogan, ma mostrando come opera più sottilmente nell’interiorità di ciascuno. Parrà contraddittorio, da parte di uno che del sistema fa parte e ne gode tutti i vantaggi (splendida la descrizione di Bernieri dell’appartamento milanese di Mogol, tutto bianco e candido, a metà tra il paradiso e certi interni altodirigenziali che si vedono in Fantozzi): ma come sottolinea lo stesso Mogol, la sua volontà di portare avanti un discorso autenticamente artistico è evidente nella volontà di non scrivere più per tutti, ma solo per Battisti, e non di luoghi comuni, ma di se stesso e delle proprie riflessioni. Ricco di gustosi aneddoti (i pellegrinaggi di giovani ragazze a casa Guccini; il romanzo incompiuto di Mogol; le contestazioni per il biglietto troppo caro all’autonomo autoriduttore Claudio Lolli; Pappalardo che canta sott’acqua nel Mar Rosso), di interviste di straordinaria verità umana e artistica (giganteggiano Gino Paoli e Renato Zero, De Gregori e Gaber), di sorprendenti rivelazioni (De André che confessa candidamente di far musica per soldi, ché altrimenti se ne starebbe a casa sua, in Sardegna a suonare pezzi della tradizione sarda per gli amici). Il libro è stato leggermente rimaneggiato dall’edizione originale del 1978: lo si capisce dai cappelli introduttivi a ciascuna intervista, che citano – spesso in maniera negativa – il seguito delle carriere degli artisti incontrati. Peccato non avere né palesato i passi rieditati né colto l’occasione per correggere errori pacchiani: ad esempio, a pagina 207 la “TUVOG art” di Ivan Cattaneo qui diventa un’incomprensibile (e incompresa dallo stesso Bernieri) “tuvo gard”, mentre si trattava di un acronimo per Tatto, Udito, Vista, Olfatto, Gusto usato dal musicista milanese quando vagheggiava la creazione di un’arte che sollecitasse tutti i sensi contemporaneamente, col risultato che tutta la prima parte dell’intervista diventa indecifrabile. A pagine 284 Borboletta di Santana diventa Bomboletta, forse per troppo ardore barricadero. Altro orrore a pagina 111, dove Storia di un impiegato di De André viene datata al 1967 (cioè quando usciva Volume 1): un assurdo, non solo perché il disco è del 1973, ma soprattutto perché è una riflessione sulla contestazione del 1968 e sulla sua deriva terroristica. E mi fermo qui: pochi errori, ma colossali. Prezioso il capitolo introduttivo La canzone politica in Italia, che ricollega l’esperienza degli anni 60 (Cantacronache e Dischi del Sole), per contrasto o per analogia, alla retorica populista della fine 800: radici lontane che hanno condizionato prima un’intera esperienza di canzone politica, poi alcune peculiarità dell’ambiente alternativo e controculturale che purtroppo permangono tutt’oggi, a completa o quasi spoliticizzazione della scena cosiddetta indipendente.
Questo è un libro intelligente e stimolante. Non sempre condivisibile: stuporogene, ad esempio, la stroncatura del Battiato anni 80 nell’Epilogo e l’applauso a Vecchioni, pur a denti stretti, di Conclusioni. Completa il volume il cd I buoni maestri, in cui si reinterpretano canzoni di protesta: piuttosto inutile, ma vabbé. Quello che è importante è il libro. Gran libro.
Articolo del
05/12/2011 -
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