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Odoya meritoriamente ripubblica quest’ottima biografia di Jim Morrison, uscita negli States nel 1991, compilata dal giornalista James Riordan e dal collezionista Jerry Prochnicky, in possesso di un sterminata biblioteca sui Doors, comprendente tutti i libri, gli articoli, le interviste e i saggi su di loro.
Frank Lisciandro, amico di Morrison fin dai tempi dei corsi di cinema alla UCLA di Los Angeles, regista insieme a lui del film HWY e da solo di Feast Of Friends, produttore di An American Prayer, nell’introduzione assicura che l’edizione italiana è migliore di quella americana, perché da essa vengono espunti passaggi ripetitivi e testimonianze giudicate poco credibili dagli stessi autori del libro, ma riportate per dovere di cronaca. Non avendo letto l’edizione originale, non so se Lisciandro ha ragione: quello che so è che questa è una biografia davvero ben fatta, che ricostruisce con dovizia di particolari e acume critico episodi leggendari della vita di Morrison, come i fatti di Miami, dove il primo marzo 1969 il leader dei Doors forse mostrò il suo serpentone preferito (pare di no, ma di questo fu accusato e per questo dovette subire un processo). Attraverso l’esame di documenti ufficiali dell’FBI Riordan e Prochnicky dimostrano come Morrison fosse al centro dell’interesse della polizia federale come agitatore rivoluzionario, in un’epoca in cui a credere che il rock potesse cambiare il mondo non erano solo i teenager alternativi, ma soprattutto le strutture di potere: la replica si sarebbe avuta qualche anno più tardi, con la vicenda della tentata espulsione di John Lennon dagli Usa per attività rivoluzionaria. Ma il merito del libro non è solo quello, già grande, di far luce in maniera obbiettiva su episodi avvolti dalla leggenda e dalla confusione: è anche quello di presentare in maniera obbiettiva e non agiografica la figura stessa di Morrison. Che ne esce sicuramente come quella di un gran compositore rock (sebbene non sapesse suonare alcuno strumento, molti brani dei Doors sono stati composti a partire dalle melodie che gli ronzavano in testa e accompagnavano le sue poesie, trasformate in testi di canzone, curiosamente, scherzi del destino, come sarebbe avvenuto 15 anni dopo in Inghilterra per il quasi omonimo Morrissey e gli Smiths), un poeta, un cineasta sperimentale, un eccezionale performer che ha introdotto nel rock il concetto di teatro ben prima di Bowie, anche se in maniera più rozza e primitiva, ma come lui influenzato anche, da un certo punto in poi, da esperienze teatrali vere e proprie (nel caso di Morrison, quelle del Living Theatre, che si sommarono alle teorizzazioni di Nietzsche sulla nascita della tragedia greca e alla lettura diretta di essa), e ovviamente innalzato vertiginosamente, come Dylan, anche se dopo di lui, il livello dei testi di una canzone rock. Ma Morrison appare anche come un irresponsabile guascone, un alcolizzato che giustificava con Rimbaud e il suo “deragliamento di tutti i sensi” quella che era la conseguenza di un bisogno di sicurezza che alla fine minò il suo rendimento sul palco e in sala di registrazione, la sua ispirazione, il rapporto con gli altri Doors e con Pamela Courson, storica fidanzata, assolutamente fuori di testa e irresponsabilmente autodistruttiva anch’essa.
Ricco di episodi, in grado di restituire il clima folle della seconda metà degli anni Sessanta californiani, il disagio dei Doors stessi fra loro e nei confronti del pubblico (provenendo dall’underground si ritrovarono ad essere gli idoli dei teenager mainstream, che da loro volevano solo sesso e rivolta fine a se stessa e sempre la stessa canzone: Light My Fire. Ottimo anche il lavoro di chiarimento sulla morte di Morrison. Da avere.
Articolo del
18/04/2012 -
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