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Intorno alle canzoni di Pierangelo Bertoli è il sottotitolo di questo volume che Mario Bonanno dedica al cantautore di Sassuolo: non “una biografia, e nemmeno l’apologia di un uomo – prima ancora che artista esemplare”, aggiunge in quarta di copertina. Rosso è il colore dell’amore viene invece definito dal suo autore “il racconto per frammenti (recensioni, testimonianze, interviste) dei suoi pensieri”. Un disclaimer, insomma, a parare possibili critiche all’operazione. Che, al di là del lato meritorio di cercare di riattivare l’attenzione su figure considerate “minori” della nostra musica (ma che minori magari sono solo di fronte a colossi come De André e De Gregori, per dirne due, e non in sé), in realtà presenta diverse pecche. Un po’ come era successo per il precedente volume dedicato a Stefano Rosso (ottima nelle intenzioni, deludente nei risultati), che perlomeno aveva il pregio di essere il primo dedicato al cantautore romano, mentre qui di libri dedicati a Bertoli ne sono usciti già altri due, citati pure nella bibliografia: Pierangelo Bertoli. Un emiliano tragico non è un vero emiliano di Domenico Mangiardi (Giunti, 2006) e il lontano Pierangelo Bertoli di Michele L. Straniero (Lato Side, 1981). Strano che Bonanno non citi anche il Pierangelo Bertoli di Domenico Mangiardi edito nel 2001 da quel Bastogi editore per cui lui stesso ha pubblicato tra il 2000 e il 2010 ben 13 (!) libri. Tutti libri molto completi e approfonditi, pare (dato che non li ho letti, essendo pure quasi tutti fuori commercio), a giudicare dalle brevi recensioni che potete leggere su www.medeaonline.net/?p=1042.
Cosa che non si può dire di questo volume di Bonanno, anche se lui stesso parla di “racconto per frammenti dei suoi pensieri”. Proverò a spiegarmi: 111 pagine, un Dvd dal vivo con intervista, 20 €. Pagine 5-7: citazioni di Marco Dieci (chitarrista storico di Bertoli), Bertoli stesso (parte del testo di A muso duro), Giorgio Gaber (Qualcuno era comunista) e del filosofo Herbert Marcuse (un passo di L’uomo a una dimensione). Pagine 9-12, “Antefatto”: parte dell’intervista televisiva di Enzo Biagi a Bertoli del 1983 più considerazioni di Bonanno sugli anni 80. Pagine 13-16, “Sette variazioni sul tema. Quasi un’introduzione”: ricordi di Bonanno sul momento in cui ha appreso della morte di Bertoli (2002, tumore) e considerazioni conseguenti sul senso della canzone d’autore impegnata (ci tornerò). Pagine 17-23, “Canzoncine”: breve biografia di Bertoli, scritta con bella mano, ma su Wikipedia si trova di più. Pagine 25-30, “Intorno alle canzoni di Pierangelo Bertoli”: saggio sulla poetica del suddetto. Pagine 31-35, “Sotto le bandiere che abbiamo scelto noi”: analisi testuale di “cinque canzoni contro la guerra”, di cui quattro riciclate quasi pari pari da Rosso sopra verde è la mia divisa. Canzoni d’autore contro la guerra (pp. 16-20) dello stesso Bonanno, uscito per Bastogi ad aprile 2010, con l’aggiunta di La quinta stagione. Pagine 37-48, “Canzoni di rabbia, pensieri d’amore”: brevi recensioni dei 19 album di Bertoli, di cui 8 riprese, a volte pari pari a volte leggermente riscritte (i giudizi negativi qui sono sempre smussati), da Storie di dischi andati. La canzone d’autore ai tempi del riflusso 1980-1989 dello stesso Bonanno, uscito nel dicembre 2010 per le Edizioni Il Foglio Letterario. Pagine 49-64, “Srotolandoparole” (tutto attaccato): dichiarazioni di Bertoli rilasciate nel tempo a proposito di dischi in uscita o eventi cui ha partecipato, note di copertina, una presentazione di Giancarlo Governi a Il centro del fiume, comunicati stampa Cbs-Sugar. Pagine 65-100, “S’at ven in ment”, piccole interviste e ricordi flash di chi l’ha conosciuto, per lo più ristrette a piccoli episodi di vita. Pagine 101-104, “Le fotografie”: come da oggetto (ne segnalo una del 1989 con un giovane Bonanno serio intervistatore). Pagine 105-108, “Discografia”: solo titoli degli album e dei 45 giri più casa discografica. Nessuna indicazione sulle sigle dei dischi originali (preziose per i collezionisti) né su chi vi ha suonato, quando sono stati registrati, ecc. C’è di più su Wikipedia. Pagine 109-111: “Bibliografia”, “Titoli di coda” (fonti e ringraziamenti), biografia e bibliografia dell’autore.
Lascio a chi legge il giudizio sulla profondità e la necessità del volume (a parte l’ego di Bonanno nel gonfiare al sua personale bibliografia). Analizzerei invece diverse affermazioni di Bonanno sparse per il volume. A p. 11 Bonanno si lancia in uno dei suoi cavalli di battaglia: “Anno di merda l’ottantatré del secolo scorso”. Gli anni 80 italiani, dal punto di vista socio-politico e culturale meritano certamente brutte qualifiche, ma cosa dovremmo dire del 1944? O del 1916? E del 1922? Ma questo serve a Bonanno per esaltare Bertoli che nell’83 continua a sfornare “dischi di fede marxista” (p. 12) mentre “Antonello Venditti […] belva già sul cuore e sull’amore, e con lui una schiera di bennati, lucidalla, arlecchini rock”, esempi di traditori dell’impegno rivoluzionario. Per Bonanno, Bertoli, lui sì, forte della sua “fede marxista” nell’83 cantava ancora “più o meno le stesse cose” di sempre e cioè “persone, ideali, amori comuni, vita vera”. Ma perché? Gli amori di Dalla non sono amori comuni? Parlare d’amore è reazionario? Bennato, Dalla, Camerini sono tutti biechi calcolatori o non artisti figli del loro tempo, cioè persone comuni? E quando mai Dalla ha cantato davvero di politica con parole sue, che non fossero quelle di Roberto Roversi? Ma Bonanno confessa di aver “sempre creduto che «a canzoni si fan rivoluzioni, si possa far poesia»". Sarà. Ma di rivoluzioni fatte per mezzo di canzoni non ne ho mai viste. Ma io non ho fedi, quindi... Circa la poesia, la canzone effettivamente possiede uno specifico poetico differente da quello delle poesia tout court, che consiste nel modo in cui il testo scritto si fonde con la musica: ma Bonanno non ne ha mai parlato una volta nei suoi volumi, dato che per lui esiste solo il testo. Invece, dei perfidi “«colleghi» di area mogol-battistiana” (incredibile! Esiste un’area mogol-battistiana della critica! Cosa vengo a scoprire!) gli “hanno, a più riprese, consigliato morigeratezza di toni, mitezza di intenti: la politica fuori dalle canzonette. Per il mio bene saggistico, s’intende”, mentre questi nemici del popolo non sanno che “allora è ancora possibile buttarla sul sociale, dare fastidio, fare un po’ male, anche soltanto scrivendo di musica e parole” (p. 14). A parte che vedere Bonanno scrivere di musica sarebbe un evento, al critico siciliano sfugge che i libri li comprano le persone interessate ad essi. Un fan di Bertoli non rimarrà male a leggere di politica e temi sociali: quindi i libri di Bonanno hanno solo funzione sloganistica e consolatoria (cioè intrinsecamente reazionaria, perché reattivi e non attivatori di nulla. Lo diceva Pasolini. Un comunista). Ma per Bonanno la funzione rivoluzionaria della canzone è data dalla sua espressione di un’ideologia oppure dal suo essere denuncia verista di ciò che accade nel “retroterra del sociale” (p. 16), mentre alla radio si ascoltano “prodotti commerciali” (p. 14). E così Bonanno ha scoperto che la musica è anch’essa una merce, nell’economia capitalista. Peccato che lo sia dall’invenzione del fonografo (1878, ben prima degli anni ’80 del ’900) e che il suo esserlo o meno non dipenda dai suoi contenuti, ma dal suo status di prodotto industriale, come descritto da Marx nel Capitale (1867, 1885, 1894, 1905-1910). Certo, esiste una differenza tra un prodotto espressamente concepito per il mercato e uno concepito in base a un’insopprimibile esigenza artistica. Ma, a parte il fatto che capolavori e boiate si trovano equamente distribuiti nei due settori, se fosse vero l’inquadramento che Bonanno dà di Bertoli (cioè quello cantore “di fede marxista”), il povero sassolese non rientrerebbe in nessuna delle due categorie, bensì in una terza, quella del suo “peccato d’origine” (sempre in quest’ottica), ovvero l’essere nato come cantastorie militante della “Canzoniere del Vento Rosso”, organizzazione musicale della maoista Unione Comunisti Italiani di Aldo Brandirali, più nota col nome di “Servire il popolo” e attiva tra il 1968 e il 1978. La terza categoria è quello di coloro che suonano il “piffero alla rivoluzione”, come biasimava il comunista Elio Vittorini già nel 1947, ovvero fanno propaganda e non arte. In Bertoli effettivamente ci sono di questi aspetti: il testo di Rosso colore è figlio di un manicheismo populista che avrebbe fatto inorridire Marx, di un atto di fede e non di prospettiva critica marxista (e quindi forse non è un caso che Brandirali oggi militi nell’area ciellina del Pdl... Quando si ha bisogno di fedi... Si veda anche il caso di Giovanni Lindo Ferretti); mentre la dura realtà dell’emigrazione è stata cantata molto meglio, a livello emozionale, e quindi capace di smuovere qualcosa, da De Gregori nell’ermetica (e decadente?) Pablo; inoltre solo Bonanno, credo, può trovare “poesia allo stato puro” (p. 42) due versi sloganistici come “è sempre uguale il sud / in tutto il mondo uguale”.
Per fortuna Bertoli non è stato solo questo, checché ne dica Bonanno: ad esempio, la poesia di Eppure soffia è lì, proprio perché la problematica ambientale è ricca di metafore e “parole belle”. Al solito, poi, la parte musicale del libro è ridicola: dato che Bertoli “veniva dal blues”, “spazio alla bossanova” (p. 27; no comment). L’unica intuizione seria espressa in questo libro, e cioè che Bertoli “ha fatto suo l’afflato contestatario di Pietrangeli e Della Mea, traghettandolo verso lidi musicali più fruibili” (p. 27) non viene sfruttata a dovere, e cioè sia individuando le caratteristiche musicali della produzione di Pietrangeli e Della Mea, sia lo specifico di Bertoli, sia il suo essere stati tra i padri del combat folk di Gang e Modena City Ramblers.
Povero Bertoli, che ha fatto di male per meritare un libro come questo? Per fortuna c’è il dvd, interessante e di prima mano.
Articolo del
30/04/2012 -
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