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Che Gianna Nannini sia l’unica rockstar donna italiana, è indiscutibile (benché non sia certo l’unica rockeuse). Un po’ la versione femminile di Vasco Rossi, se vogliamo, con tutte le differenze del caso: contenutistiche, dato che al disimpegno sbandierato di Vasco (che una sua forza progressiva l’ha peraltro avuta fino al 1983) qui si contrappone un marcato impegno para-femminista; musicali, perché alla marcata impronta rock dell’emiliano si contrappone una maggiore varietà di stili, che oltre agli inizi di marca cantautorale, vedono protagonista la melodia operistica verdiana e pucciniana almeno dal 1983 (anno fatale, evidentemente) di Fotoromanza, seppur condita ora da chitarroni distorti, ora da arrangiamenti elettronici, ora da entrambi. Nannini è un’icona nazional-popolare, senza dubbio: la sua origine sociale benestante (www.grupponannini.it) non ha mai soffocato quella popolanità, con la enne, così toscana (tanto che nelle terre bagnate da Arno, Ombrone e Cecina forse solo i nobili non l’hanno, se vogliamo ricorrere ai luoghi comuni), che le ha permesso di parlare la lingua, almeno da un certo punto in poi, degli italiani medi.
Paradossalmente, ma non tanto, se si pensa al maschilismo italiano, su Nannini finora sono stati scritti solo due volumi, oltre alla sua autobiografia: nulla in confronto alla pletora di saggi e biografie dedicati a Vasco. Le premesse per accogliere bene quindi questo volume di Patrizia De Rossi dedicato alla musicista senese ci sono tutte, ma purtroppo svaniscono man mano che ci si inoltra nella lettura. I motivi? Innanzitutto una decisa superficialità di informazione. A p. 44, ad esempio, si racconta dell’incontro tra Nannini e Alan Moulder per la produzione di Malafemmina, album uscito a settembre 1988. Cito: “[Dave] Stewart le fa il nome di Alan Moulder, un inglese che ha già prodotto grandi gruppi rock come Smashing Pumpkins, Nine Inch Nails e The Jesus and The Mary Chain”. Il problema sta tutto in quel “già”, perché siamo nel 1988 e Moulder ha come unico lavoro di rilievo quello con Jean Michel Jarre: con The Jesus and The Mary Chain collaborerà per Automatic nel 1989, cioè l’anno dopo; la sua collaborazione con gli Smashing Pumpkins inizierà nel 1992 con Siamese Dreams e quella con i Nine Inch Nails data addirittura al 1994, con The Downward Spiral. In tutti e tre i casi, inoltre, non si tratta di produzioni, ma di missaggi. Non serve avere una cultura rock enciclopedica per saperlo: basta Wikipedia. Inglese, certo. Altro peccato grave: a p. 52 De Rossi parlando del grunge e citando come esempi “gruppi come i Nirvana, i Pearl Jam, i Soundgarden” afferma che in questo genere “chiunque, anche senza aver studiato musica, può ambire a diventare un musicista e a vendere dischi”. A parte il fatto che neppure Jimi Hendrix aveva mai studiato musica e sappiamo che esecutore e compositore è stato (nel rock non è necessario aver studiato musica), il tono dell’affermazione fa supporre che il grunge sia stata musica semplice, facile da suonare per tutti: se ciò è sicuramente vero per i Nirvana, peraltro il gruppo meno grunge di tutti, anche se paradossalmente fondatore inconsapevole del genere, chiunque sa suonare e si è cimentato con un brano dei Soundgarden potrà mettersi a ridere di fronte a una frase del genere. È finita qui? Magari! A pagina 144, parlando di Janis Joplin, musa ispiratrice di Nannini, De Rossi scrive che la cantante texana “rifiuta in maniera totale gli schemi precostituiti dell’epoca (l’America degli anni Cinquanta, per di più in uno stato conservatore come il Texas)”. Sorvolando sulla grammatica, per cui “l’America degli anni Cinquanta” dovrebbe essere “l’epoca” nella lingua di De Rossi, mentre invece è un luogo, c’è da dire che nella migliore delle ipotesi la frase è ambigua: perché Joplin iniziò la sua vera carriera musicale nel 1962, anno in cui registrò a casa propria il suo primo demotape; essendo nata nel 1943, negli anni 50 era una studentessa, che cantava nel coro della scuola, un po’ fuori dagli schemi, cicciotella, con profonde cicatrici sulla pelle che resero necessaria la dermoabrasione. Difficile che sia questa l’epoca in cui, secondo De Rossi, “Janis vive con grandissima libertà la sua sessualità”, cosa invece risaputa e nota per quanto riguarda gli anni 60. Vabbé, direte voi, ma queste cose, tuttavia, non riguardano direttamente la Nannini. Già, però il resto non è che sia meglio. Cos’altro non va in questo libro? Uno, non è un Songbook (esce nella collana Musica), ma si concentra quasi esclusivamente sui testi, peraltro abbastanza a volo d’uccello, parlando davvero poco di musica e sempre in modo superficiale. Due, De Rossi fraintende totalmente l’utilizzo del termine punk fatto da Nannini riguardo a certe sue produzioni musicali: non si tratta di genere, ma di attitudine; De Rossi invece, da come usa la parola punk, pare credere che certi dischi o canzoni di Nannini siano punk. Credo che Gianna si stia facendo delle grasse risate. Tre, il libro non è nemmeno una biografia, dato che manca proprio il racconto della vita di Nannini, che sarebbe utile per comprendere la sua produzione, le sue svolte artistiche. Compare a flash, qua e là, spesso per accenni, come quelli ai ricoveri tedeschi a inizio anni 80 per abuso di alcool e anfetamine o alla dipendenza da eroina: dato che in conseguenza di questi Nannini decise di cambiare vita e il risultato fu Puzzle, l’album della svolta melodica e operistica, magari qualche importanza ce l’ha. Quattro, il libro non è contestualizzato: si accenna ai collegamenti della Nannini con il movimento femminista dei tardi anni 70, ma i suoi temi vengono trattati con molta vaghezza e non si menziona nessuna artista, delle tante, che misero il femminismo in musica, come il gruppo Ape di Vetro, formato da Grazia Di Michele, Chiara Scotti e Lella Lamorgese o le produzioni per i Dischi dello Zodiaco del Movimento Femminista Romano. In genere il femminismo viene trattato con la leggerezza (diciamo così) degna di una rivista come Vanity Fair, che non si pone certo come luogo di approfondimento critico di alcunché. Quinto, sempre degno di Vanity Fair et similia è il capitolo Giannastyle, dove per sette pagine (163-169) veniamo informati sul modo di vestire di Nannini e sulla sua ginnastica preferita, presentando tutto come verità rivelate quando si tratta di cose banalissime nel mondo del rock (dico per l’abbigliamento. Confido che Kurt Cobain non fosse dedito al Pilates). Sesto: che direste di un libro dove a un certo punto le pagine si ripetono? E non per un errore di impaginazione, ma per scelta dell’autrice: confrontate le pp. 14-15 con p. 123 e poi ditemi.
In definitiva, Gianna Nannini. Fiore di ninfea è quanto meno un’occasione mancata: agiografia superficiale e sciatta, è un ennesimo esempio di come non si dovrebbe scrivere un libro di musica. Il confronto con qualsiasi analogo libro anglosassone è impietoso. Dato che sono un ingenuo, continuo a meravigliarmi che Arcana, che pubblica quasi sempre cose egregie se prodotte all’estero, stampi una pochezza simile. Che peraltro, potrebbe pure vendere, dato il livello della curiosità musicale in Italia.
Articolo del
20/08/2012 -
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